Un calcio ai pregiudizi

Il regista Stefano Urbanetti e il suo docufilm “Quattro Quinti”
Silvia Colombini

Se anche i campioni sbagliano i rigori, riesce difficile immaginare come possa andare a rete un giocatore non vedente. Eppure, contro tutti i nostri pregiudizi, un cieco può praticare ogni sport, calcio compreso, e lo dimostra il bellissimo docufilm “Quattro Quinti” di Stefano Urbanetti. Nella squadra ASDD Roma 2000, protagonista del film, quattro giocatori sono ciechi e solo il portiere ci vede. Con passione e sensibilità, il regista ci mostra come lo sport possa unire davvero, annullando le barriere e rendendoci tutti partecipi delle avventure della squadra. Con audiodescrizione, sottotitoli e un audio molto presente, il docufilm (distribuito da Rai Cinema, candidato nella sua categoria anche al David di Donatello 2024) ha partecipato a numerosi festival riscuotendo sempre un grande successo, tanto da vincere il Premio Accessibilità Cultura 2024.

Il capitano Vincenzo Censi e il regista Stefano Urbanetti sul set - fotografia di Alessandra Trucillo

Cosa ti ha spinto a raccontare questa storia?

 

Questo è un progetto artistico con il quale sono riuscito ad unire le mie due più grandi passioni il calcio e il cinema, oltre alla musica che nel film riveste un ruolo importante. Tutto è nato dall’incontro con Jacopo Lilli, uno dei protagonisti. Ciò che mi ha raccontato già dai primi attimi della nostra prima conversazione è stato per me incredibile e ricordo di aver percepito quasi una vocazione che mi ha spinto naturalmente alla realizzazione di "Quattro Quinti”, che, proprio con Jacopo, ho iniziato subito a ideare. Un regista è sempre alla ricerca di qualcosa che possa emozionare il pubblico, ma in questo caso credo si vada anche oltre, perché è un film che per me ha determinato una vera e propria catarsi, mi ha cambiato la vita, non solo professionalmente, ma umanamente. È una storia che avevo urgenza di raccontare, per dare visibilità a questa realtà sportiva sorprendente, dalla quale traboccano valori puri e incontaminati, che, in una società dominata dall’immagine e dall’apparenza, assumono un significato ancora più profondo. Sono fiero di essere riuscito nel mio intento, soprattutto per lo staff della squadra e i giocatori con i quali ho creato anche un forte legame affettivo. È un mondo costituito da 4 sensi su 5, nel quale sono entrato in punta di piedi, e ringrazierò sempre i miei protagonisti che si sono subito fidati di me e mi hanno guidato passo dopo passo. Ci sono tante realtà che noi neanche lontanamente possiamo immaginare e le più sconosciute e le più inesplorate sono quelle più coinvolgenti.

 

L’arte può favorire l'inclusione?

 

L'arte, in questo caso il cinema, è uno strumento eccellente per veicolare messaggi di “inclusività”. E lo sport, che per certi versi è una metafora della vita, come in questo caso in cui i protagonisti hanno una disabilità visiva che superano giocando a calcio, lo è forse ancora di più. L’aspetto più importante è proprio il messaggio di inclusività che trasmettono con naturalezza i meravigliosi atleti protagonisti di questa storia vera. Questo concetto l'ho espresso quando ci hanno assegnato il XIII Sorriso Award al Festival di Roma, un riconoscimento molto significativo perché assegnato al miglior film italiano che tocca temi sociali. Nelle interviste i giocatori raccontano quanto la vista sia un senso paradossalmente “ingombrante”, che influenza e vizia gli altri quattro sensi, per loro molto più affinati dei nostri. Ho inoltre imparato da questa esperienza, grazie all’aiuto prezioso di Laura Raffaeli, presidente di Blindsight Project, che ogni regista e produttore ha l’obbligo legale, ma soprattutto morale, di rendere ogni film accessibile. E anche questa è una forma importante e nobile di inclusività.

 

Come regista hai una tua visione, qual è la visione dei tuoi protagonisti?

 

Amo emozionarmi ed emozionare con quello che racconto con le immagini. In questo caso è una storia virtuosa che ho vissuto e raccontato, e credo che questo film abbia qualcosa di dirompente: i protagonisti che vivono al buio, sono portatori di una grande luce che irradia, quasi acceca, e riempie di gioia. Il loro sguardo può essere sintetizzato da un prezioso passaggio, per me emblematico: Jacopo descrive l’emozione di un goal, quella di una persona che con 4 sensi segna a un portiere vedente. In quel momento viene dimostrato quanto questa disparità in realtà sia qualcosa di molto sottile, labile, e che i limiti di un essere umano siano solo un blocco mentale, delle apparenti barriere che possono essere distrutte e attraverso le quali si può andare oltre.

Progetti per il futuro?

 

Ne ho veramente tanti, soprattutto tre serie tv biografiche, ho pronte le sceneggiature che hanno già ottenuto dei riconoscimenti ministeriali. Ma quello già in fase avanzata di lavorazione è un docufilm sulla vita e la carriera artistica di un regista di culto come Sergio Citti, che ho avuto l’onore di conoscere e con il quale ho collaborato alla stesura di tre sceneggiature. Ho già intervistato numerosi attori, amici e collaboratori di Citti che hanno raccontato momenti inediti del suo percorso artistico ed umano e della sua capacità affabulatoria di un cantastorie, dalla vita delle borgate romane all’incontro con Pasolini, fino ai suoi film più iconici come "Casotto" e "Il minestrone".

 

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