Tim Hetherington era un fotografo e documentarista di guerra, sempre in prima linea, perché per poter dare vita alla sue foto voleva essere là “dove non ci sono istruzioni su come comportarsi, dove l’uomo è posto di fronte a situazioni estreme”, dove, aggiungo io, l’umanità può manifestarsi nelle forme più inaspettate. Questo suo esporsi e vivere direttamente gli scenari di guerra, lo portò a una fine prematura nel 2011, mentre era in Libia durante la prima guerra civile.
In una delle sue missioni arrivò alla Milton Margai School for the Blind di Freetown in Sierra Leone. Fu qui che incontrò e fotografò gli alunni della scuola, alcuni di loro resi ciechi dai guerriglieri del Ruf (Revolutionary United Front).
La guerra civile, iniziata nel 1991, era impegnata nel suo consueto lavoro di distruzione e massacro soprattutto della popolazione civile. In particolare fecero sensazione, anche a un pubblico disinteressato come quello occidentale, le amputazioni e gli stupri fatti dalle milizie del Ruf agli abitanti dei villaggi. A differenza della mutilazione degli arti, non ci sono prove che le amputazioni prevedessero sistematicamente l’accecamento delle vittime ma solo alcune testimonianze.
Tim Hetherington frequentò la scuola dal 1999 al 2003, per cinque anni, per poter vivere intimamente questa situazione e cogliere con le sue immagini la realtà di cui era testimone, una realtà resa ancora più drammatica dalla guerra. Paradossalmente le sue foto non puntano a cogliere la disperazione, la crudeltà, la mancanza di umanità, ma proprio l’opposto, mostrano come anche in certe situazioni l’uomo preservi la sua umanità.
Il repertorio di immagini che Hetherington ci ha lasciato, ritraggono momenti di vita interna nella scuola, dove gli studenti sono in aula, nei corridoi, nel cortile. Si ha l’impressione che non siano scatti occasionali e fortunati, ma che il fotografo abbia aspettato a lungo quel momento, forse accompagnando i soggetti e parlando con loro. Gli studenti e le studentesse della Milton Margai School lo chiamavano infatti Uncle Tim, tanto la sua presenza era diventata abituale tra di loro.
In una foto in bianco e nero appare a figura intera un bambino di 8 – 9 anni in piedi, con lo sguardo rivolto verso di noi. Lo sfondo è per due terzi buio, il rimanente è illuminato in modo discreto. Il bambino rimane nella parte chiara, sta facendo qualcosa, porta tra le braccia un quadernone, ma si ferma e sembra che ci guardi. Ha delle grosse labbra semiaperte e gli occhi socchiusi, l’occhio sinistro lattiginoso. Ma ciò che dà il tono a questa immagine sono i rettangoli di luce di diverse dimensioni che colpiscono i vari elementi dell’immagine. Si intuisce che il sole passa da una griglia in muratura posta davanti a un atrio dove sosta il bambino. La zona buia sullo sfondo è invece l’aula più interna.
Le schegge di luce colpiscono ogni cosa, la fronte del bambino, le sue labbra, le pareti del corridoio e finiscono perfino nell’aula buia dove disegnano piccole finestre al cui interno possiamo intuire che, al di là dell’oscurità, in quell’aula ci sono oggetti, presenze.
In un’altra foto una ragazzina con gli occhi socchiusi guarda in una direzione lontana. Si trova in un’aula illuminata. Il suo vestito bianco contrasta con la parete nera, mentre la sua testa contrasta con la parte alta della parete di colore chiaro. È bella, fiera, e non ci guarda, guarda altrove.
L’incontro con i ciechi della Milton Margai School è stata un’esperienza professionale e umana determinante per Tin. Qui conosce nel profondo gli effetti della guerra che incontrerà di nuovo in Afghanistan, in Sudan e, alla fine, in Libia.





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