Aprire un museo è una tappa importante nella vita di un istituto. Si tratta, innanzitutto, di prendere in mano una serie di tracce e di dar loro una forma concettuale prima ancora che un ordine.
I musei sono sempre fatti di cose, ma quello che maggiormente distingue un museo da un altro è il racconto che viene fatto al suo interno.
Qui si racconta una storia particolare di un istituto che da molto tempo ha aperto le sue porte alla città, ma che non si è mai mostrato come uno strumento per guardare con altri sguardi la città che viviamo. La storia della quale parliamo è una storia che oggi stanno vivendo quasi tutti: l’abbandono della carta come unico supporto per la veicolazione delle nostre idee.
La dialettica tra il supporto cartaceo e il supporto immateriale è in questi ultimi tempi all’ordine del giorno nelle differenti comunità umane. All’interno dell’Istituto dei Ciechi questa dialettica è stata risolta ormai da trent’anni: la biblioteca cartacea vive negli scantinati e ha lasciato il posto non a tecnologie fredde, ma a una sperimentazione continua sul tema della lettura e della scrittura, che ha fatto del Cavazza un centro di importanza mondiale nella sperimentazione dei nuovi linguaggi.
La centralità del racconto messo in scena nel museo sui temi della lettura e della scrittura è un appuntamento azzeccato con il nostro contemporaneo. Si dice che siamo una società che legge sempre meno libri; sicuramente è il tempo nel quale scrivere e leggere sono le due principali attività del comunicare umano, merito delle nuove tecnologie che esistono in virtù di una scrittura e si alimentano di contenuti attraverso brevi messaggi in continuo movimento.
Il museo, nel suo obiettivo principale di diventare un luogo dove incontrare la storia dell’istituto, si presenta alla città con questa prima sala a cavallo tra period room e wunderkammer: uno spazio costruito intorno al salotto del conte Cavazza, popolato dalla collezione di oggetti usati in istituto in più di un secolo di attività.
Per costruire la collezione, nei mesi precedenti l’apertura si è scavato nelle vicende dell’Istituto, per riportarne alla luce la storia - una storia fatta di storie di singoli individui, ognuno con il proprio racconto, la propria esperienza che diventa esempio di una storia più grande: quella dell’Istituto e, con essa, quella di Bologna. Il Museo è solo una prima tappa di questa ricerca che inizia dal tema della collezione per arrivare a un percorso di consapevolezza e di ri-scoperta di come, nel corso degli anni, in sottofondo alle varie attività svoltesi per e dentro l’Istituto, la linea guida di base sia stata quella di non fornire una assistenza “sterile” a una categoria in disagio, ma di rendere libere e indipendenti le persone in esso accolte. Una libertà che si conquista attraverso lo strumento della cultura e della conoscenza: dalla scrittura/lettura, passando per la musica, per arrivare a una ricerca che ha permesso negli anni uno sviluppo costante di strumenti ad alta componente tecnologica.
Ultima questione: il titolo del museo.
Il titolo è come un gioco enigmistico. Contiene una parola che deve essere in qualche maniera illuminata; così facendo si capirà il senso stesso del museo.
Il nome di Tolomeo è stato per diversi secoli sinonimo di qualcosa che non funzionava più, una spiegazione dell’universo che non aveva più ragione di essere.
Il paradigma di Tolomeo non ha oggi un valore legato al cosmo, ma legato all’idea stessa della geografia per come ne facciamo esperienza in questo contemporaneo.
Le tecnologie portatili che ci portiamo dentro, nel permetterci di osservare vari aspetti del mondo, hanno riportato la soggettività del punto di vista al centro del dibattito.
La rete digitale che ci contiene è cartesiana, ma si popola e trova il suo valore nel presentare la moltitudine di punti di vista.
Ciascuno di noi è diventato un centro attraverso il quale guardare il mondo per gli altri. Tolomeo è quindi una nuova metafora attraverso la quale spiegare questa idea di nuova centralità del “punto di vista”, della posizione dalla quale si guarda, per spiegare come usiamo il mondo.
Raccontare alla città cosa è accaduto all’interno delle sue mura, mostrare come è stato sperimentato il rapporto con la parola scritta in queste ultime decine di anni, rendere visibili gli ausili intesi come elementi che lavorano sugli immaginari è nel complesso la proposizione di un punto di osservazione che ha nell’Istituto Cavazza il suo protagonista.