Una storia vera per crescere senza avere paura del buio
L’adolescenza è una stagione complicata, onnipotenza e insicurezze, tormenti e desideri sconosciuti, non c’è mai calma, e forse per quello, quando finisce, è il momento della vita che più resta nel cuore con il suo carico di struggenza e intensità.
Ogni giorno c’è una prima volta, una prova da affrontare, una paura da superare.
Quando, poi, a viverla sono due ragazze non vedenti come Giorgia e Giona, le protagoniste del film “Il colore dell’erba”, ecco che tutto diventa ancora più complicato.
Nato come documentario, è un racconto di formazione con al centro due ragazze che attraversano tutte le paure e i dubbi della loro età con i sensi ancora più accesi. Giorgia e Giona non vedono, ma decidono lo stesso di intraprendere il loro cammino verso l’indipendenza, cercando di raggiungere da sole il lago lungo il sentiero che gli è stato proibito. Il viaggio diventa così un percorso simbolico che mostra la capacità di sfidare i propri limiti per vivere esperienze nuove e diventare grandi. Il film è stato pensato, ideato e prodotto per dare vita a un’immersione sensoriale particolare grazie al vero e proprio paesaggio sonoro ideato dal celebre sound designer Mirco Mencacci (“Le fate ignoranti”, “La meglio gioventù”) che permette a spettatori vedenti e non vedenti una percezione fisica ed emotiva della storia. Prodotto da Indyca e Kuraj con il sostegno del Mibact, di Trentino Film Commission, Piemonte Doc Film Fund e Rai 3 (Doc 3) e con il patrocinio dell’UICI – Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti, il film è stato fortemente voluto dalla regista Juliane Biasi Hendel che intervistiamo.
La scelta di raccontare l’adolescenza mettendo al centro due giovani non vedenti amplifica in qualche modo tutte le emozioni e le difficoltà di quel momento magico?
Sì, io stessa mi sono interrogata sul concetto di adolescenza. In fondo l'abbiamo passata tutti. Giorgia e Giona, le due protagoniste, rappresentavano e facevano le cose tipiche della loro età. Ad esempio, imparare a memoria una canzone in un pomeriggio per poi scoprire che il giorno dopo non ti piace più, ma la ricerca dell'autonomia era il tema più importante per loro. L'idea è venuta a Giorgia: uscire da sole, loro due, quella era la sfida ed era interessante seguire il percorso, raccontare la loro voglia di non andare accompagnate. È diventata la linea narrativa che cercavo e lungo i quattro anni nei quali ho seguito le ragazze ho cercato di non perderla di vista. Certo, sono stati quattro anni di un lungo cercare la strada con tutte le varianti possibili, ma le due ragazze sono sempre state molto mature. C'erano tanti particolari che avrei potuto raccontare, ma alla fine abbiamo seguito la linea che loro avevano indicato, la strada verso la libertà. Per cercarla ci vuole fiducia, in se stessi e nell'altro, e tutti abbiamo paura di affrontare l'ignoto, ma dobbiamo superarla.
Utilizzare lo strumento che comunica per immagini come il cinema per una platea che quelle immagini non può vedere è una sfida difficile. Come si è preparata?
È stato difficilissimo volevamo fare un prodotto per entrambi i pubblici, vedenti e non vedenti. Per questo ho sperimentato tante strade. Parlando con Eraldo Busarello che fa le audio descrizioni ho pensato di risolvere il problema in quel modo, ma mi sembrava artisticamente una scelta non giusta, anche perché le ragazze, che adorano il cinema, mi hanno spiegato che le loro parti preferite di un film erano quelle dove potevano capire anche senza audio descrizione. Allora ho incontrato Mauro Marcantoni, che ha scritto un libro bellissimo sulla cecità, e mi ha fatto capire come rapportarmi con una persona cieca. Bisogna fare un passo oltre, superare il modo assistenziale e trovare una sintonia attraverso la quale raggiungere un'autenticità nuova. Così ho cercato Mirco Mencacci già in una fase avanzata della lavorazione del film, abbiamo parlato e lui ha accettato di partecipare al progetto. Il suo contributo ha dato quel valore aggiunto che stavamo cercando, il film ha acquistato uno spessore forte tanto che l'esperienza va fatta al cinema, dove davvero sembra di essere al centro della scena. Io sono molto contenta del risultato. Quando organizziamo delle proiezioni e i vedenti provano ad assistere ad occhi chiusi hanno emozioni forti, si sentono persi come le protagoniste e invece il pubblico cieco dice che è tutto vero, è molto reale, perché il suono indica dove muoversi, come accade alle ragazze per trovare la strada giusta.
Il buio è un concetto che spaventa, è l’ignoto e anche i sogni, l’incertezza e le stelle, quindi in qualche modo corrisponde al passaggio dalla giovinezza all’età adulta ed è la condizione della sala cinematografica. Ma per chi vive nell’oscurità, quali significati può assumere?
La percezione del buio è una cosa astratta, tutti hanno l'idea di dare luce alle cose, ma anche Mirco mi diceva possiamo accendere tutte le lampadine, ma se non vedi non vedi. È vero che si possono sviluppare altri sensi. Giorgia, che è nata cieca, ha sviluppa l'olfatto e ha un approccio diverso, per lei è tutto da scoprire. Giona, invece, che è diventata cieca da piccola ricorda le emozioni, ma non le immagini e quindi le ricerca. E se da una parte Giorgia e più allegra, Giona cerca le risposte all'interno, sa che c'è una mancanza e tende a indagare verso direzioni interiori. Forse la strada è entrare nel buio, in se stessi e cercare: lì i sogni li trovi.
Mirco Mencacci, l’artista sound designer del cinema italiano, ci racconta il suo approccio.
Baudelaire diceva che profumi, colori e suoni si rispondono. Come si fa ad ascoltarli?
In realtà tutti i nostri sensi sono legati tra loro dal punto di vista della memoria. Quando un suono è riprodotto in modo naturale e non sembra artificioso, di sicuro anche nella memoria richiama ciò a cui è legato: un certo tipo di vento può far pensare a una situazione di natura che poi a sua volta richiama il profumo dei fiori, oppure un altro tipo di vento può ricordare un momento di caldo e quindi una grande luce. In questo senso Baudelaire aveva ragione, perché associamo al suono diverse emozioni che si muovono in tutte le direzioni.
Con il suono lei racconta non solo il mondo visibile, ma anche il canto delle emozioni.
In un mondo che ha fatto del rumore la sua modalità d’espressione, come si fa a sentire ancora davvero?
Purtroppo oggi è difficile sentire, viviamo sommersi dal rumore della tecnologia che sta sovrastando tutto. Dopo l'inquinamento atmosferico, viene quello acustico. Muoversi in questa giungla di rumori è difficile, ma ormai fa parte della nostra quotidianità. Io cerco di raccogliere i suoni e di farli ascoltare in un modo più naturalistico possibile. Quando si ascolta un film in un cinema, si sente un suono lavorato, dove si sono fatte delle scelte su cosa far sentire, e qui è il mio ruolo che determina il come si racconta. Io ho sviluppato una tecnica di registrazione che ottiene dettagli naturalistici che poi vengono amplificati dalla modalità di diffusione. Il mio obiettivo è riuscire a immergere lo spettatore nel suono per farlo percepire reale, vitale. Proprio nel corso della proiezione del film a Bologna, sentendo abbaiare un cane, uno spettatore mi ha detto "ma io credevo che fosse in sala" e questo è stato un grande complimento. Come per tutte le cose, se un suono viene percepito artificioso non comunica emozione, ma se è naturale l'emozione arrivai diretta.
Il film racconta un percorso di libertà, tipico dell’adolescenza, quando si cresce con tutti i sensi amplificati per catturare il mondo. Com’è il suono di questa fase della vita?
Io credo che il suono venga messo in secondo piano per le persone che vedono perché si ha la sensazione che la vita sia qualcosa di concreto e si tende a non prendere consapevolezza di quanto racconti. Un non vedente, invece, riceve più informazioni dal suono perché ne ha più bisogno per entrare in contatto con la realtà quotidiana e questo, a maggior ragione, vale per un adolescente alla scoperta del mondo.
Cosa consiglierebbe a un ragazzo che volesse fare il suo mestiere?
Oggi non è facile. Quando io ho iniziato, si lavorava bene, ora è tutto al ribasso. Certo, nel cinema il suono ricopre minimo il cinquanta per cento di un film e la sensibilità di una persona non vedente può essere utile. Bisogna ascoltare tanto, prendere consapevolezza di questo mezzo potentissimo, ci vuole tanta passione per la tecnologia. Per diventare un sound designer devi conoscere tutte le fasi di lavorazione, dalla registrazione musicale al mixaggio alla presa diretta, io ho fatto esperienza in ogni settore e accorgendomi che c'erano cose che non mi piacevano mi sono impegnato, ma c'è voluto tempo e tutta l'esperienza che mi sono fatto film dopo film. Bisogna coltivare la passione, anche in tempi difficili come questi.