La vertigine secondo Matteo

Un campione del mondo appeso a un sogno
Silvia Colombini

C’è un attimo di sospensione particolare nell’arrampicare che bisogna provare almeno una volta. Come se la vita, in quell’istante di vuoto che sta tra un passaggio e l’altro, entrasse in una dimensione più autentica. Il contatto con la roccia, l’abbracciare con il proprio corpo la montagna, con la consapevolezza di come quell’abbraccio possa diventare pericoloso, la sfida con i propri limiti. Ci solleviamo dall’abisso della quotidianità per elevarci sulla cima. Poi, una volta arrivati lassù, in alto, possiamo solo scendere, più forti e più felici, pronti a risalire un’altra volta. Mettersi alla prova arrampicandosi sulle montagne assume un valore ancora più grande quando a farlo è un ragazzo non vedente come Matteo Stefani. Ventidue anni, Campione del Mondo di Paraclimbing nelle specialità di Lead e Speed e vincitore di Campionati Mondiali ed Europei, Matteo non ha certo paura di confrontarsi con i propri limiti. Appeso a una roccia è riuscito a realizzare i suoi sogni e a trasformare un limite in un vantaggio.Matteo con la sua allenatrice e guida Carla Galletti - Campionati del mondo di Chamonix 2015 foto di Francesco Stefani

Chi non vede ha un modo di conoscere e percepire il mondo che passa attraverso gli altri sensi. Questa modalità diventa molto utile in uno sport come l’arrampicata dove il contatto fisico con la parete e lo spazio è totale. Tatto, istinto, concentrazione e tanta capacità di immaginare un mondo senza confini. Per cominciare, chiediamo a Matteo dove e come si svolge questo sport. “L’arrampicata sportiva, a differenza della sua sorella arrampicata alpinistica, si svolge su pareti di roccia di diversa altezza solitamente fino a 30 metri, oppure in strutture artificiali che simulano la roccia e raggiungono altezze anche di 20 metri. Lo scopo non è quello di raggiungere la cima di una montagna, come nel caso dell’arrampicata alpinistica, ma di riuscire a salire su pareti che, per dimensione, tipologia e distanza degli appigli, siano di difficoltà sempre maggiore. Nel fare questo la sicurezza è un aspetto di primaria importanza ma, se entrambe le discipline prevedono che l’arrampicatore indossi un imbrago e, tramite esso, sia legato a una corda di sicurezza gestita da un compagno di cordata, che in quel momento non arrampica, nell’arrampicata sportiva le anelle metalliche cui la corda viene fissata tramite moschettoni sono a distanze ravvicinate e fissate in modo sicuro, mentre nell’arrampicata alpinistica sono poste tra loro a distanze più lunghe e variabili, e fissate in modo più precario."

Come fa una persona che ha gravi difficoltà di vista?

“Può arrampicare quasi del tutto in modo autonomo su pareti di bassa difficoltà dove può trovare facilmente degli appigli tastando con le mani. Su difficoltà maggiori, invece, è necessario ricevere indicazioni da una persona alla base della parete. Per rendere più facile la comunicazione è preferibile utilizzare apposite radioline munite di microfono e auricolari. Qualora poi l’arrampicatore con problemi di vista provi diverse volte la parete fino a impararla a memoria può anche, se la difficoltà è elevata, affrontarla autonomamente. Addirittura a volte anche persone vedenti compiono allenamenti bendati. Infatti il non vedere gli appigli da afferrare costringe l’arrampicatore a fare più attenzione a come disporre il proprio corpo per compiere il minor sforzo possibile per raggiungerli.”

Come hai cominciato ad arrampicare?

“Avevo circa undici anni, ero in montagna con la mia famiglia, e mio papà fece provare me e mia sorella ad arrampicare su un masso a bordo sentiero. Sorprendentemente mi sentii subito a mio agio in quella nuova dimensione, potevo tranquillamente muovermi a quattro zampe sulla superficie rocciosa seguendo le indicazioni che mi venivano date e tastando con le mani. Così ogni volta che andavamo a fare gite in montagna insistevo sempre perché trovassimo un sasso dove arrampicarmi e finché, alle scuole superiori, ho potuto frequentare un laboratorio pomeridiano di arrampicata presso la palestra del CUSB Bologna. Poi ho conosciuto Carla Galletti che poi è diventata l’allenatrice mia e di altri due ragazzi ipovedenti, Giulia Poggioli e Giulio Cevenini, con i quali costituiamo una vera e propria squadra. Oggi Carla ci allena con Federico Stella, il nostro preparatore atletico, e con Pietro Dalprà, arrampicatore di fama mondiale, sono le nostre guide quando arrampichiamo. Con loro condividiamo gli obiettivi e sportivi e il desiderio di far conoscere sempre di più questo sport permettendo così che altre persone con problemi di vista si avvicinino alla sua pratica e che grazie alla nostra testimonianza possa diffondersi sempre di più una cultura di inclusione della persona con disabilità.

 

Su iniziativa di Pietro, abbiamo organizzato la prima giornata nazionale dell’arrampicata per non vedenti in dieci diverse palestre d’arrampicata italiane il 21 Febbraio, giornata in cui si ricorda Louis Braille. La nostra esperienza di squadra è stata anche raccontata nel docufilm Vincersi di Mirco Giorgi ed Alessandro Dardani.”Matteo in parete Campionati del mondo di Chamonix 2015 foto di Francesco Stefani

Con il loro impegno Matteo e la sua squadra scalano anche le pareti dei pregiudizi. Arrampicare è quindi un modo per allargare anche gli orizzonti e avere nuove prospettive?

“Sì, mi ha permesso di esprimermi in modo pieno e vario a livello fisico nonostante il mio limite del non vedere e, anche se per una persona che non vede è sempre più faticoso, Il piacere e i risultati ottenuti mi hanno spinto a dedicarmi con sempre più impegno a questa attività. Ci tengo però a sottolineare come sia la persona vedente che non vedente per salire una parete utilizzino le stesse tecniche, e questo permette un bello scambio di opinioni e di esperienze con tutti i climber.”

Al di là della competizione, la montagna è anche per te il luogo della pace interiore?

“In generale la natura e nello specifico la montagnami dà molta gioia e serenità.

Più spesso però la definirei un luogo di crescita dove posso sperimentare cosa vuol dire gestire le mie emozioni, mantenere la concentrazione, impegnarsi a superare una difficoltà con fatica cercando nello stesso tempo di disperdere meno energie possibili. Sicuramente la motivazione che questo sport mi da per crescere sia mentalmente che fisicamente è finora stata sempre molto forte e credo che lo sarà anche in futuro.”.

 

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