L’espressione che introduce al presente articolo è il titolo di un celebre saggio di Umberto Eco, pubblicato dalla casa editrice Bompiani nel 2003, in cui si affronta il concetto di arbitrio e responsabilità nella restituzione, in una lingua altra da quella originale, di un’opera letteraria e per esteso di ogni testo (verbale e visivo) dotato di valore poetico ed estetico. Il noto semiologo, scomparso nel 2016, che nella vita tradusse tanto e tanto fu tradotto, si interroga qui su come preservare, conservare e tramandare, un dire talvolta intraducibile. Come scegliere, dunque, l’equivalente estetico, ammettendo che nel principio del “quasi” stia il limite e il potenziale di ogni condivisione semantica?
Questo preambolo potrebbe aiutarci a comprendere quanto sia difficile esportare e importare forme e contenuti dotati di valore poetico, senza incorrere nel rischio di improprie riduzioni di senso e di ingiuste approssimazioni. Di recente il Museo Tattile Anteros ha collaborato con il Museo d’Arte della Prefettura di Yamanashi, in Giappone, per creare al suo interno un percorso accessibile dedicato alle persone non vedenti e ipovedenti. L’opera tradotta in bassorilievo è Il seminatore dell’artista dell’Ottocento francese Jean-François Millet, dipinto di cui esistono due versioni: una esposta negli Stati Uniti, a Boston, e una in Giappone, appunto.
Ciò che sembrava scontato e di facile assimilazione, si è rivelato soggetto da indagare con semplicità non superficiale. Numerosi sono stati i momenti di dibattito e riflessione congiunta, con i colleghi del sol levante, al fine di trovare un accordo sulle modalità ideali di percezione aptica e sui supporti didattici da adottare in contesto educativo museale, per garantire una comprensione autentica e non stereotipata dell’opera. La condivisione di modalità percettive non sovrapponibili, tra culture diverse, e di rispettivi modelli cognitivi di riferimento, impone il rispetto dei differenti concetti di qualità estetica e insegna a cercare un comune denominatore tra il sentire e il capire uno stile. L’uso stesso della gestualità espressiva e iconica, necessaria per decifrare, scomporre e ricomporre, in questo caso specifico, una semplice tecnica di semina, ha imposto rigore nella ricostruzione storica di antiche consuetudini rurali, per poter così tradurre una dinamica gestuale in un’immagine mentale plastica e intuibile. Grazie ad azioni propriocettive e cinestesiche di supporto all’esplorazione tattile del bassorilievo, progettato e realizzato per tradurre in valori plastici il dipinto, e grazie alla traduzione dell’immagine in descrizione verbale, si è pervenuti ad una relazione coerente tra forma e contenuto.
L’esperienza che abbiamo vissuto è stata importante, ci ha insegnato come nessun metodo sia automaticamente esportabile, o importabile, da un contesto geografico all’altro, senza senso critico, senza opportuno adattamento ai destinatari di riferimento. La fertile collaborazione con i ricercatori del Giappone ci ha permesso di apprendere il valore dell’essenzialità formale e comunicativa. Spesso le evidenze, apparenti, nascondono logiche e contenuti più sottili, che necessitano tanto di umiltà, quanto di esattezza interpretativa. Il seme è una metafora di ciò che si vede solo in parte per come sarà, qualcosa che può emergere o restare sommerso. Non tutti i semi attecchiscono: alcuni soffocano nella terra, pur restando sostanza, altri vengono strappati al terreno dagli uccelli che se ne nutrono, altri germogliano secondo progetto. Tutti hanno funzione e dignità, nell’irrinunciabile e mai del tutto prevedibile ciclo dell’esistenza, che trascende ogni umana volontà.