Intervista al regista Silvio Soldini premio Braille per il film Il colore nascosto delle cose
La psicanalisi insegna che è nell’osservazione data e ricevuta sin dalla prima infanzia che si forma il senso di sé. Se è così, in quale specchio si ritrovano coloro che sono privati del senso della vista? Come spesso accade nei paradossi della vita, è proprio un autore di cinema, mestiere nel quale si racconta per immagini, che si è avventurato nell’esplorazione del mondo di chi non vede. Silvio Soldini, regista italiano dalla profonda sensibilità (nella sua lunga filmografia un David di Donatello per Pane e tulipani), dopo aver vinto il Nastro d’argento nel 2014 con il documentario Per altri occhi - avventure quotidiane di un manipolo di ciechi, è uscito nelle sale con Il colore nascosto delle cose. Il film, interpretato da Valeria Golino e Alessandro Giannini, nel raccontare l’incontro tra una osteopata non vedente e un pubblicitario rampante, esplora due modi di vedere e percepire la realtà. E sarà proprio il colore nascosto delle cose quello che, spesso dato per scontato o reso invisibile dalle apparenze, imparerà a vedere davvero il protagonista del film. La cecità non è un limite conoscitivo, ma pratico. In una società che fa dell'apparire l'unico strumento di conoscenza, cosa ci può insegnare chi non vede?
La vista è sicuramente il senso a cui diamo più peso, anche perché il mondo intorno è costruito sull’apparenza delle cose che vediamo, tante informazioni che passano attraverso gli occhi mentre in verità, con gli altri sensi, forse si va penetrare più nella verità. Infatti, dagli incontri che ho avuto con i non vedenti ho capito quanto riescano a raggiungere subito una ricerca di profondità autentica per comprendere veramente chi hanno davanti senza giudicarlo con la vista, mentre noi scannerizziamo subito e diamo giudizi.
Il non vedente sviluppa una visione non convenzionale del mondo, C’è, forse, un punto di contatto con il regista, che della sua visione originale delle cose ne fa un mestiere?
Si, io stesso mentre preparavo il film mi sono fatto aiutare da amici e amiche non vedenti e la loro consulenza è stata molto importante. Oltre a raccontare a me e agli sceneggiatori aneddoti e curiosità, ci hanno aiutato a capire se quello che stavamo scrivendo funzionava o se c’era qualcosa sui cui dovevamo stare attenti. Quando gli abbiamo letto per la prima volta la sceneggiatura, ho sentito una capacità di ascolto e una concentrazione molto particolari. E mentre ascoltavano traducevano le mie parole in un film che loro già vedevano, immaginandosi scene che io stesso non sapevo ancora come avrei girato. È questa capacità che ho cercato di mettere in scena quando, la prima volta che il protagonista esce con le ragazze, una cieca e l’altra ipovedente grave, resta stupito nel sentirle parlare di film e di città, del mondo che loro percepiscono senza vederlo.
Alla fine, la spinta che porta ognuno di noi ad andare oltre è la stessa: passione, curiosità, desiderio di conoscenza. Quanto oltre si è spinto ne Il colore nascosto delle cose?
Dopo il primo incontro con il mio fisioterapista cieco e il documentario Per altri occhi, ho deciso di indagare questo mondo, perché attraverso il cinema non mi era arrivato un racconto vicino alla realtà. L’immagine era molto diversa, c’era sempre una visione stereotipata. Io ho cercato di rappresentare anche l’allegria, l’ironia, la voglia di godersi la vita a piene mani di chi non vede, raccontando come una persona con una disabilità possa portare un insegnamento anche a un cosiddetto normale. Viviamo immersi nella velocità e nello stress, e nel film l’incontro con chi non vede è la spinta a rallentare per andare davvero oltre, ed è quando il protagonista si spinge al di là delle sue convenzioni che capisce di non poter più tornare indietro.
Il Premio Louis Braille che ha vinto riconosce nel suo film un impegno volto ad aumentare l’inclusione sociale e culturale per ciechi e ipovedenti. Quanto c’è ancora da fare per far sì che, come dice il poeta, si possa davvero dire “non ho nessuna pietà di voi perché ho soltanto i miei occhi nei vostri”?
Bisogna arrivare a buttare giù definitivamente il muro che ci separa dall’alterità in generale. Il disabile è un diverso e noi abbiamo difficoltà a rapportarci con loro, c’è paura nell’avvicinarlo o pietà nel guardarlo.
Penso che più si riuscirà ad abbattere queste barriere e più ci potrà essere uno scambio di arricchimento reciproco e spero che questo film possa mettere un mattoncino in questo discorso.