L'OTTANTESIMO ANNIVERSARIO DI FONDAZIONE DELLA FEDERAZIONE NAZIONALE DELLE ISTITUZIONI PRO CIECHI
Prof. Silvestro Banchetti
La Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi fu pensata in quel sesto congresso tiflologico che si svolse a Bologna nel 1910, in una stagione che sembrava molto promettente per i non vedenti, in quanto la massima attenzione veniva posta alla loro problematica educativa nella diffusa temperie di filantropismo che aveva caratterizzato gli inizi del secolo XX. La relazione del professor Alessandro Graziani che, con Augusto Romagnoli, di quel congresso fu la mente più illuminata, auspicava che gli istituti si confederassero per acquistare maggior forza presso le autorità pubbliche e, con somma lungimiranza, chiedeva altresì la creazione di una “tipografia” che, fornendo ai ciechi qualche libro, contribuisse ad alleviarne la sofferenza e a migliorarne la cultura. Alessandro Graziani era da cinque anni direttore dell’Istituto Cavazza di Bologna e conserverà l’incarico fino al 1927, portando quella istituzione ad alti fastigi. Gli istituti però non si mostrarono prontamente sensibili all’intuizione di Graziani. Era ancora prevalente, quando non del tutto esclusiva, la finalità assistenziale verso i ragazzi ciechi, ispirata al Codice Civile del 1865, alla legge crispina n. 6792 del 1890, ma anche a gran parte del pensiero tiflologico che, dopo gli entusiasmi tra illuministici e romantici dei pionieri al tramonto del secolo XVIII e agli albori del XIX, per il malaugurato intrecciarsi in pedagogia dello Herbartismo e di certe prospettive positivistiche, celebratrici della passività della persona umana, giudicavano fallita ogni forma d’integrazione scolastica. E’ del 1867 l’opera di Mathias Pablasek, che era succeduto a Vienna al grande Wilhelm Klein nel 1848, dal significativo titolo “L’Assistenza ai ciechi dalla culla fino alla tomba”.
Anche in Italia gli istituti, che si erano modellati su quelli europei fin dal 1818, non avevano mai manifestato una sia pure embrionale capacità di progettare iniziative valide sotto il profilo dell'educazione ed erano rimasti nella forma puramente assistenziale, ispirandosi a quel sentimento che potremmo dire di “pietà impietosa”, come efficacemente la definisce Carlo Monti nella ricostruzione storica dell’humus in cui nascerà l'Unione Italiana dei Ciechi. La ragione convenzionale e istituzionalizzata creava questa sorta di “gabbie d'oro”, che per noi spesso erano di fango, per favorire l’emarginazione dei ciechi dal contesto sociale. Quei fanciulli, dal volto inespressivo e senza speranza, vivevano nello spirito di rassegnazione. Come le orfanelle de “Il boccone del povero”, di cui dice Luigi Pirandello ne “I vecchi e i giovani", uscivano oranti dall'istituto, solo in occasione del funerale di qualche benefattore, poiché era comune convinzione che la loro preghiera avrebbe trovato più sicuro ascolto in cielo, essendo, come recita il linguaggio popolare toscano, “segnati da Dio” .
Una nuova sensibilità si era manifestata nei congressi tiflologici e nella fioritura dei patronati, come quello intitolato alla Regina Margherita che, fondato nel 1884, era stato per lunghi anni presieduto da quella grande personalità di cieco e di tiflologo che fu Dante Adriani Barbi. Non è quindi accidentale che l’esperienza di una nuova educazione dei ciechi venisse avviata nel 1912 da Augusto Romagnoli, nel fervore delle Scuole Nuove e nell’insorgente spirito filantropico della Regina Margherita di Savoia che, con questa felice iniziativa, intendeva porsi a fianco dei più illuminati protagonisti europei in tanto delicato terreno.
La guerra, le vicende del dopoguerra ed il clima di disordine che ne seguì, però, impedirono l’attecchimento dell'intuizione di Graziani. Purtroppo la storia, in cui siamo tutti destinati a vivere, costituisce sempre un inevitabile condizionamento. E la nostra storia si misura sempre con i parametri della guerra, dell'anteguerra, del dopoguerra, del tempo che intercorre fra due guerre e non si valuta quasi mai nel segno delle grandi conquiste di civiltà.
Nel 1920, il 26 ottobre, nasceva a Genova l’Unione Italiana dei Ciechi, la gloriosa Associazione che ha costituito non solo la falange degli uomini che dovevano portare i ciechi al faticoso autoriscatto, ma anche la guida per tutte le altre consociazioni di minorati. Soltanto quattro mesi dopo, il 24 febbraio del 1921, nasceva a Firenze la Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi, per volontà degli stessi protagonisti del Congresso genovese. La sede verrà trasferita a Roma nel dicembre del 1945.
Ne fu primo presidente Alessandro Graziani, che la resse fino al 1931 e ne favorì l'erezione in Ente Morale, avvenuta con R.D. n. 119 del 23 gennaio 1930. A lui succedette il professor Oreste Poggiolini, il fondatore di “Gennariello”, che ne era stato segretario e che la guidò fino all'anno della sua scomparsa nel 1938. Seguì la presidenza del dottor Aurelio Nicolodi, che significativamente ne assommò la guida a quella dell’Unione Italiana dei Ciechi, quasi a testimoniare ulteriormente l’unità di intenti e di finalità. Nel 1943 Aurelio Nicolodi delegò i suoi poteri di presidente della Federazione al professor Paolo Bentivoglio che, dal 1947 al 1950, ne fu Commissario governativo. I dibattiti nelle assemblee dell’ente e la relazione che, nel 1948, il professor Leone Cimatti, che ne era segretario, lesse in occasione del giubileo della Federazione, che era stato rinviato di due anni per le condizioni postbelliche del Paese, ci informano della molteplicità e della multiforme attività della nuova istituzione, che si trova sempre a fianco dell’Unione Italiana dei Ciechi nelle prime essenziali e significative conquiste dall’angolo visuale dell'istruzione.
Le prime conquiste, che l’Unione Italiana dei Ciechi e la Federazione ottennero nel comune impegno, costituiscono il presupposto per la crescita personale, sociale e morale di tutti i ciechi. Si può affermare che il R.D. n. 2841, del 30 dicembre 1923, il R.D. n. 3126 del 31 dicembre 1923 e l’O.M. 27 giugno 1924 assumano il senso di una rivoluzione copernicana per la crescita dei ciechi e si configurino come la prima e fondamentale riforma della Federazione e delle istituzioni, nata come conseguenza legislativa della grande Riforma Gentile che aveva rivoluzionato in senso positivo la scuola nel 1923.
Il R.D. n. 2841 riforma in modo significativo 1a legge n. 6972 del 1890. In un comma aggiuntivo al testo della legge è scritto: “Possono esser dichiarati istituti scolastici posti alla dipendenza del Ministero dell’Istruzione quegli istituti a favore dei ciechi, nei quali gli scopi dell’educazione e dell’istruzione, in base alle tavole di fondazione e agli statuti, siano esclusivi o abbiano una prevalenza notevole sui fini di assistenza…”. E all’art. 4 della legge è aggiunto il seguente comma: “Delle amministrazioni degli istituti, che abbiano per fine l’assistenza, l’educazione e l’istruzione dei ciechi …… deve far parte possibilmente un rappresentante dei ciechi stessi……, nominato dal Ministero dell’Interno di concerto con quello dell’Istruzione”.
Il passaggio dal concetto di istituto come ricovero assistenziale a quello di ente di istruzione è avviato. La presenza di un rappresentante dell’Unione Italiana dei Ciechi nel Consiglio degli istituti costituisce una garanzia per il conseguimento delle finalità educative, essendo stato, nel congresso fiorentino del 1921, quello dell’educazione e dell’istruzione il punto primo fra quelli che Aurelio Nicolodi aveva indicato come finalità della neonata Associazione.
Il R.D. n. 3126 costituisce una pietra miliare nella crescita educativa dei ciechi e segna un traguardo di civiltà nella vita del Paese, in quanto fa obbligo allo Stato di istruire i ragazzi ciechi, consentendo all’Italia di affiancarsi alle nazioni più progredite. All’art. 6 si legge: “Con Decreti Reali di concerto tra il Ministero della Pubblica Istruzione e il Ministero dell’Interno sarà determinato quali degli attuali istituti che provvedono all’educazione dei ciechi debbano accogliere gli scolari. Agli istituti, di cui al precedente comma, potranno essere annessi speciali Giardini d’infanzia”. Qui si deve sottolineare, innanzi tutto, l’aspetto prioritario dell’educazione, per cui non tutti gli istituti tradizionali vengono giudicati capaci di assolvere compiti scolastici. Vorrei altresì mettere in particolare evidenza come si avesse singolare riguardo, per la prima volta, alla necessità di un’educazione prescolastica, sulla scorta della dottrina pedagogica e dell’esperienza di Rosa Agazzi e di Maria Montessori. E all’art. 8 è scritto: “Nessuno può esser nominato all’ufficio di direttore, di insegnante e di assistente nelle scuole previste dall’art. 6, ove non sia provveduto dello speciale titolo di abilitazione rilasciato da scuole all’uopo istituite”. Si prevede qui quella che, con espressione montessoriana, verrà detta “Scuola di Metodo”, che verrà istituita con R.D. n. 2483 il 15 novembre del 1925. L’educazione e la rieducazione dei ciechi, perciò, dovunque avvengano, non sono abbandonate miseramente all’estemporaneità e all’improvvisazione, ma sono attentamente vigilate.
Molto significativo a me pare l’art. 1 dell’O.M. del 27 giugno del 1924, dove si legge: “L’obbligo si assolve nelle scuole private o paterne, negli istituti dei ciechi all’uopo designati e presso le pubbliche scuole elementari dove gli alunni ciechi debbono essere ammessi dalla quarta elementare”. Qui si ritrova, a mio sommesso giudizio, il primo e fondamentale incunabolo dell’integrazione scolastica dei ragazzi ciechi nella scuola di tutti.
Incorrerebbe tuttavia in un grave errore e in facile ingenuità chi ritenesse che questa radicale riforma venisse accolta con buona disposizione d’animo da parte delle istituzioni. Lo stesso istituto Cavazza, alla cui direzione era stato chiamato il professor Domenico Marabini, si mostrò tanto ostile a quella che il direttore, con un certo sarcasmo, chiamava “la signora riforma”, che, nel 1930, il competente Ministero dovette sciogliere il Consiglio e affidare al Conte Francesco Cavazza la funzione di Commissario, con la raccomandazione di ispirarsi alla legislazione vigente. Questo si legge nel bel volume con cui Giampaolo Venturi ricostruisce i primi cinquant’anni di vita della gloriosa istituzione bolognese. A chi serenamente consideri il nuovo spirito che aleggiava in quegli anni di tanto fervore non sfuggirà il senso della radicale “metànoia”, della “metamorfosi” che si richiedeva agli istituti per diventare enti di educazione. Si rilegga la presentazione che Augusto Romagnoli scrisse all’opera “Ragazzi ciechi nelle scuole elementari comuni”, edito dalla Federazione nel 1926 e che raccoglie le relazioni dei primi maestri che ebbero alunni ciechi in quarta e quinta elementare. Si rifletta altresì che la stessa opera “Ragazzi ciechi” di Augusto Romagnoli, che costituisce ancor oggi il più autorevole testo per l’educazione di chi non vede, è del 1924. Scriveva Augusto Romagnoli presentando la bella silloge di osservazioni scritte da quelle semplici, ma nobili figure di maestri e di maestre: “Oggi, che tali istituti, per l’azione concorde della Federazione Nazionale, dell’Unione Italiana dei Ciechi e dello Stato, si vanno alacremente riformando, è utile, oltre che bello, divulgare la notizia di ciò che, con mezzi e con preparazione tanto minore, riuscirono a fare insegnanti pieni di zelo e di bontà”. L’azione congiunta della Federazione e dell’Unione, quindi, aveva già dato i suoi buoni effetti. Tuttavia, queste embrionali esperienze di integrazione erano destinate a tramontare ben prest e la legislazione, che le autorizzava, venne negletta di buon’ora. L’obnubilarsi rapido della pedagogia gentiliana, da cui l’una e le altre erano germinate, la riluttanza degli istituti a trasformarsi da ospizi a centri di sostegno per l’integrazione, la struttura economica e quella politica del Paese, favorirono la scuola interna alle istituzioni che, con la legge n. 1463 del 26 ottobre 1952, diventerà scuola speciale e ne sarà dichiarata obbligatoria la frequenza come unica forma di istruzione per i ragazzi ciechi. Lo stesso Augusto Romagnoli, con facile preveggenza, aveva scritto nella medesima prefazione: “So bene ch’è assai più comodo avere le scuole interne e i propri alunni segregati dai contatti non facilmente controllabili dalla scuola pubblica; ma, poiché il fine dell’educazione non è la scuola, ma la vita, vana è 1’opera degli educatori, anzi dannosa, se vogliono sottrarre i giovinetti alla prova o ritardarla più del necessario….L’inviarli a compiere la loro educazione nelle scuole pubbliche, facendo loro trovare negli istituti speciali gli aiuti, le ripetizioni, i consigli opportuni è l’unico mezzo di farne dei giovani allenati alla vita”.
La crescita e l’affermarsi della Federazione come ente autonomo furono piuttosto lenti; si può dire che, ai suoi esordi e per lungo tempo, la nuova realtà sia vissuta all’ombra dell’Unione Italiana dei Ciechi. Soltanto il 28 luglio del 1939, infatti, la Federazione ebbe il proprio statuto. Fino a1 1991, esso è stato l’unica Carta che abbia disciplinato la vita dell’ente. Sono passate una tremenda guerra, la Resistenza, l’Assemblea Costituente; si sono succeduti oltre una cinquantina di governi nelle formule più bizzarre, ma lo statuto della Federazione è rimasto a reggere le sorti di un ente che intanto cresceva ed affermava, con testimonianze ineccepibili, la propria presenza. Di là dalle facili ironie, si possono fare almeno due considerazioni: quello statuto, che ha retto a un mezzo secolo di travagli storici, pedagogici ed educativi, era stato redatto e soprattutto pensato da persone che, come Aurelio Nicolodi, avevano ben chiaro il fine dell’educazione, della rieducazione e del recupero dei ciechi e, nel contempo, avevano grande fiducia nelle istituzioni. Non tutti gli istituti, infatti, venivano accolti nella Federazione; lo statuto parla di “meritevoli”, lasciando intendere che la partecipazione alla Federazione doveva costituire, per gli istituti, un traguardo ambito. L’educazione, quindi, era il criterio di valutazione e non tale era il patrimonio o qualsiasi altro parametro. In secondo luogo, quello statuto, letto fuori di certe reminiscenze legate alla politica del tempo, può costituire ancora oggi un punto di riferimento, giacché involge tutta la dimensione relativa alla vita dei ciechi. E indubbiamente, soprattutto in virtù di quello statuto, la Federazione ha svolto un ruolo enorme e indiscutibile nella vicenda educativa di chi non vede. La sua presenza sia nell’istituzione degli Avviamenti professionali per Ciechi, che si iniziarono il 16 ottobre del 1940, sia nell’organizzazione delle scuole professionali di Firenze e di Napoli, attraverso il R.D. n. 1449 del 29 agosto 1941, testimonia l’ampio orizzonte in cui si dispiegò in quegli anni difficili, la sua attività.
Tre, per quel che a me pare, sono i momenti della storia pedagogica della Federazione: vi fu quello della “didattica differenziata”, che fu prevalente nell’era delle scuole per ciechi e risultò dominante tra il 1924 e il 1952. Il maggior fulgore, però, doveva aversi nel secondo momento, che fu quello della “didattica speciale”, legata a quella forma di scuola interna agli istituti.
Tra il 1950 e il 1982, l’ente fu presieduto dalla dottoressa Elena Coletta Romagnoli, consorte del grande educatore. Si trattò della più lunga e storicamente più controversa presidenza della Federazione; l’aspetto più pericoloso di questo momento fu il contrasto con l’Unione Italiana dei Ciechi, che portò all’isolamento della Federazione e, di riflesso, anche degli istituti. Di là da questo grave aspetto, si deve pur riconoscere che, durante questa lunga presidenza, il fervore non diminuì d’intensità. Durante il periodo della didattica speciale, s’intensificarono convegni e seminari degli educatori per ciechi e degli educatori ciechi. La Federazione si potenziò, s’irrobustì, fondò nel 1964 un centro per la produzione di sussidi didattici e una propria stamperia, fornendo un materiale e un patrimonio librario che dovevano aver diffusione non solo in Italia, ma anche all’estero e che ancora oggi conservano una propria grande validità educativa. Nacquero allora le tavole per la geografia, per le scienze naturali, per la storia dell’arte, che sarebbe ingiusto travolgere nel giudizio acriticamente negativo sull’era delle scuole speciali, giacché, ove si sappiano utilizzare con intelligenza pedagogica e con sensibilità didattica, conserverebbero valore anche nel nostro tempo, come di fatto conservano, in quanto costituiscono tutt’oggi l’ossatura su cui cresce il nostro laboratorio. La cecità, infatti, resta e non si cancella con un tratto di penna o con un dispositivo di legge. E con essa restano le sue tipiche peculiarità, della cui valutazione gli esperti del nostro ente furono e restano ineguagliati maestri.
Un momento, che sarebbe davvero ingiusto dimenticare, qualificò in questo tempo l’attività encomiabile della Federazione. Venne istituita una scuola di alfabetizzazione per ciechi che avessero perduto la vista in età postscolastica. L’iniziativa fu certamente antesignana di tante consimili scuole che saranno avviate successivamente dagli organi dello Stato e dagli enti locali. La Federazione manifestò sensibilità per le difficili condizioni di quei “ciechi tardivi” che d’improvviso piombavano nelle tenebre. Fu commovente vedere uomini dalla mano incallita per la durezza del lavoro agricolo o di quello operaio accostarsi alla lettura del Braille e trarne motivo di rinascita spirituale.
Venne quindi il terzo momento, che potrebbe dirsi, con un’espressione di Enrico Ceppi, della “didattica situazionale”, legata cioè alla fase dell’integrazione scolastica. Qui incomincia il declino della Federazione. Quello statuto, allora, diventò una sorta di “letto di Procuste”, una specie di “camicia di Nesso” e, da strumento positivo quale s’era potuto rivelare nell’era delle scuole per ciechi e in quella delle scuole speciali, ora rischiava di diventare un impedimento alla trasformazione e un ostacolo per l’adeguazione ai nuovi tempi.
La contestazione sessantottesca aveva travolto, con il concetto di collegio quale noi avevamo ereditato dall’Umanesimo e dai Gesuiti, la realtà e la struttura dei nostri istituti. Il presupposto per l’integrazione dei ragazzi in difficoltà nella scuola di tutti è certamente quella che Orkheimer dice “L’eclissi della ragione”, intendendo quella convenzionale e quella istituzionalizzata. Si affacciò quindi 1’esigenza di una ragione critica e problematica che, anziché esser subordinata al sistema, ne costituisse uno stimolo al rinnovamento. Da questa esigenza discende un nuovo concetto di perfezione che non sia più, come la “kalokagathìa” dei Greci e la bellezza dell’Umanesimo, escludente, ma si configuri come includente, tale cioè da insegnare a veder l’uomo anche là dove è la sofferenza. Di qui discende quel senso della solidarietà, che è la traduzione in termini laici e terreni della virtù evangelica della carità. La scuola, per tal via, diventa scuola di tutti. Senza cessare, in quanto “skholé”, cioè ricerca disinteressata, di essere organo di cultura, si fa ad un tempo servizio sociale. Accoglie infatti non solo la fanciullezza squillante di letizia, ma anche quella dolorante, cupa, vanita. Anche in questa modulazione, la Federazione è presente per affiancare e sostenere i ragazzi ciechi, affinché ognuno di essi, “iuxta propria principia”, cioè secondo le proprie intime disposizioni, raggiunga non il minimo, ma il massimo di istruzione di cui è capace.
L’Unione e la Federazione divergevano per quanto attiene alla problematica degli istituti. Gli uomini dell’Associazione (“e fra questi cotai son io medesmo”) avvertivano la realtà incombente della nuova prospettiva scolastica e sollecitavano la Federazione a stimolare il ristrutturarsi degli istituti, affinché, anche nell’era che si andava apparecchiando, si rendessero capaci di assolvere la loro funzione di strumenti atti al recupero dei ciechi. La questione investiva la natura medesima dell’ente ed i rapporti fra questo e le istituzioni. Quale capacità di orientamento aveva la Federazione nei confronti di istituti che, gelosi della loro autonomia, stentavano ad aderire alla Federazione?
Nel marasma di quei tormentatissimi anni, ogni istituto tentava di sopravvivere come poteva, trovando ora un modo, ora un altro per giustificare la sua presenza. Nessuna istituzione pareva disposta ad ascoltare le raccomandazioni della Federazione, anche se questa, vincendo un certo spirito di conservatorismo, avesse avuto, come di fatto non aveva, la forza di dare qualche suggerimento. La diaspora delle istituzioni, in tal modo, fu inesorabile. Uno spirito opposto a quello che, nel 1921, aveva ispirato l’opera dei fondatori, andò prevalendo. Ogni istituzione ritenne di poter fare da sola e, di conseguenza, la Federazione restò sempre di più un “flatus vocis” e una “vox clamans in deserto”, un puro nome circonfuso di gloria per quel che era stata, ma incapace di ritrovare il proprio “ubi consistam”.
In queste condizioni assunse la presidenza dell’ente, nel 1982, Enrico Ceppi che, come a suo tempo la dottoressa Romagnoli, era altresì preside della Scuola Statale Augusto Romagnoli. Di Ceppi, di 1à dai meriti indubbi del tiflologo, si debbono segnalare due tratti: innanzi tutto, il tentativo di riavviare i rapporti con l’Unione Italiana dei Ciechi e, in secondo luogo, l’intensificazione degli aspetti collaborativi tra la Federazione e la Scuola Romagnoli che, per dettato della legge n. 1734 del 1960, restava il luogo per la ricerca metodologica, per la sperimentazione didattica e per l’indagine scientifica nel settore della tiflologia. Nel primo ambito si può dire che i rapporti del preside Ceppi con l’Associazione erano notevolmente migliorati. Ceppi comprese sempre che, nelle battaglie tiflologiche, non si può prescindere dall’Unione. Enrico Ceppi tentò altresì la rinascita della Federazione attraverso l’art. 52 della legge n. 270 del 22 maggio 1982, per il quale il personale della Federazione veniva trasferito alle dipendenze dello Stato e posto nel ruolo provinciale del Provveditorato agli Studi di Roma. L’articolo, però, mentre sanava la situazione dei dipendenti, non si preoccupava della pur necessaria vitalità e del potenziamento della Federazione. Non prevedeva infatti il rinnovarsi ed il sostituirsi del personale, a mano a mano che questo si rendesse indisponibile. E’ accaduto in tal modo che l’Ente, fino al 1998, non abbia disposto di personale capace di svolgere le funzioni proprie, nel momento che, in virtù del nuovo statuto, queste si erano moltiplicate.
Il 7 agosto 1988 si spegneva, improvvisamente ed immaturamente, il professor Enrico Ceppi. La scomparsa di questo grande protagonista dei cimenti tiflologici e della pedagogia dei ciechi ha segnato un momento gravissimo, destinato ad accentuare la crisi dell’ente. Il 5 luglio del 1989 assumevo io la presidenza della Federazione, ereditando una situazione davvero drammatica.
La Federazione doveva verificare se esistessero ancora le premesse per una sua ripresa e per poter testimoniare il senso della sua necessità anche nei nuovi tempi. Sotto il profilo pedagogico e tiflologico, la sua possibilità di esistere ancora e le prospettive di un suo rinverdimento e di un suo rinvigorimento, per quel che a me parve, sussistevano per almeno due ordini di riflessioni: in primo luogo, perché dalla didattica differenziata e da quella speciale non si può prescindere neppure quando l’educazione dei ragazzi ciechi si svolga nella scuola ordinaria. Un imperdonabile errore, che si commette nel nostro tempo, consiste nel contrapporre 1’integrazione all’educazione specializzata che, invece, si integrano, non si elidono l’una con l’altra.
In secondo luogo perché gli istituti, rinnovandosi radicalmente, avrebbero dovuto costituirsi come centri per l’erogazione di quei servizi che, implicati dalla presenza della minorazione visiva, gli enti locali, le Regioni, ma spesso anche lo Stato, non sono in grado di fornire per mancanza di preparazione specifica. Nel convegno di Taormina, svoltosi nel febbraio del 1991, emerse l’esigenza dell’istituto come struttura agile, dinamica, che esce dalle sue mura e va alla ricerca del bambino, del fanciullo, del giovane e anche dell’anziano privi della vista, per contribuire a soddisfarne le necessità nel proprio ambiente, senza gli sradicamenti che, in passato, avevano fatto dei ciechi tanti apolidi.
Io compresi che, ove gli istituti fossero riusciti a configurarsi in queste rinnovate dimensioni, sarebbero potuti tornare ad avere un senso tiflopedagogico e, di conseguenza, la Federazione sarebbe potuta tornare a coordinare realtà educative concrete, conservando un senso educativo. Ove questo spirito fosse mancato, la stessa Federazione avrebbe dovuto mettere in forse il senso di una sua ulteriore presenza. Mi resi conto che era inutile abbandonarsi ai rimpianti, alle nostalgie e continuare a vivacchiare e a “cantar su di sè funereo canto”, perché la storia procede, tutto travolgendo di ciò che risulta “caput mortuum”, inutile e sorpassato. Mi resi conto che 1’impegno non poteva che dispiegarsi verso la comprensione del “segno dei tempi” e della loro interpretazione per il soddisfacimento dei nuovi bisogni che insorgono nella civiltà in cui abbiamo in sorte di vivere. Fui profondamente consapevole che era sì il tempo di superare quella che Giovanni Giraldi aveva detto la “tiflologia archeologica”, ma che ci si doveva altresì predisporre a difendersi dall’improvvisazione e dal caleidoscopio delle sperimentazioni senza esperienza. La situazione generale era però scoraggiante. Tuttavia recita il verso di Percy Shelley: “Se l'inverno viene la primavera non può essere lontana”.
La rinascita, grazie all’impegno dell’Unione Italiana dei Ciechi, è arrivata il 28 agosto del 1997 quando, con la legge n. 284, lo Stato dispone il finanziamento dell’ente. Siamo dinanzi alla seconda grande riforma della Federazione che le renderà possibile attuare le finalità statutarie.
Con la legge n. 284, prende avvio la palingenesi della Federazione. Per far fronte ai nuovi compiti, il nostro ente ha intrapreso una molteplicità di iniziative, tutte ispirate ad un profondo significato tiflopedagogico. In primo luogo, poiché la Federazione si configura come 1’ente che coordina l'attività delle istituzioni, si è reso possibile un nuovo rapporto tra queste e quella, che ha il proposito di rinvigorire 1’immagine dell’una e delle altre, resa appannata talvolta dalle vicissitudini degli ultimi decenni. Per vivificare la Federazione e le istituzioni, trasformandole in centri di alacrità tiflopedagogica, il Consiglio ha affidato a sei tra i più attivi istituti lo sviluppo di altrettanti e qualificati progetti educativi e rieducativi, movendo dalla storia e dalla competenza degli istituti affidatari. Gli istituti, cioè, per quel che concerne i rispettivi progetti, agiscono quali articolazioni della Federazione, arricchendola e ad un tempo arricchendosi di prestigio, in quanto l’una e gli altri ne traggono beneficio d’immagine in ambito locale e nazionale, insieme con l’occasione di approfondimento pedagogico.
L’affidamento dei progetti si è ispirato a due fondamentali criteri assiologici: in primo luogo, il Consiglio si è proposto di venire incontro alle esigenze di quei gruppi sociali che, all’interno della grande famiglia dei minorati della vista, che già di per sé contiene una notevole forza emarginante, rischiano di soffrire di ulteriori esclusioni. Vi sono i ciechi con minorazioni aggiuntive, dei cui progetti di recupero, in ambiti diversi, si occupano l’istituto Rittmeyer di Trieste e il Martuscelli di Napoli. Vi sono gli ipovedenti, della cui riabilitazione si occupa l’istituto Chiossone di Genova. Vi sono gli adolescenti e i giovani, dei cui percorsi scolastici successivi alla scuola media di primo grado si occupa il Centro Regionale S. Alessio Margherita di Savoia di Roma. Vi sono gli anziani, del cui miglioramento esistenziale si occupa l’istituto Florio Salamone di Palermo. In secondo luogo, il Consiglio ha tenuto presente un tema di squisita e scottante attualità, relativo all’informatica. L’istituto Cavazza di Bologna, in prospettiva internazionale, si occupa dell’applicazione dei nuovi mezzi tecnologici alla didattica. E’ in via di affidamento all’istituto di Milano un progetto che concerne la creazione di altri sussidi didattici.
La seconda iniziativa concerne l’altra dimensione in cui si è modulata, negli ultimi 40 anni, l’attività della Federazione che riguarda la creazione dei sussidi didattici. Mi riferisco alla mostra itinerante, che il nostro ente ha avviato e che ha già percorso otto regioni, riscotendo dovunque grande attenzione e notevole interesse. La mostra, cioè, non è una mera e puramente folkloristica esposizione, ma si propone nei termini di una dimostrazione didattica nel mondo tiflopedagogico e si realizza per la preziosa collaborazione fra la Federazione, l’Unione Italiana dei Ciechi e la Biblioteca per Ciechi di Monza, concretando uno spirito di ritrovata unità di intenti e di azione, che fu il grande ideale dei nostri Maggiori alle origini.
Proprio i sussidi didattici, intesi montessorianamente quale strumento imprescindibile per l’atto rieducativo del ragazzo cieco, costituiscono il tema a cui si riconduce la terza iniziativa della Federazione, anch’essa in via di ulteriore perfezionamento dall’angolo visuale delle modalità attuative: mi riferisco alla concessione gratuita, fino al valore di lire 250.000, del materiale didattico a tutti i ragazzi ciechi che, attraverso la scuola, ne facciano richiesta. Con questo provvedimento, il Consiglio si riconduce allo spirito che da sempre ha animato le Carte statutarie dell’ente e che lo qualifica come ente di educazione sotto la vigilanza del Ministero della Pubblica Istruzione che, fin dagli esordi, ha fornito un contributo in ragione dei sussidi offerti ai ragazzi ciechi. Il provvedimento vuol sottolineare il rispetto che si deve anche al bambino cieco innanzi tutto in quanto bambino, poi perché cieco. Vorrei sottolineare il significato pedagogico che si annette al momento della rieducazione come quello che, superando l’ingenuità della compensazione sensoriale, prepara il potenziamento compensativo che si consegue attraverso l’azione studiata e intelligente sui sensi residui come sensi vicarianti. Il valore educativo dei sussidi didattici venne affermato dal realismo pedagogico di tutti i tempi, da Erasmo da Rotterdam al Comenio, dal Rousseau, al Pestalozzi, al Gabelli e alla Montessori. I ciechi, purtroppo, come è nella loro triste storia, sono arrivati in ritardo di quasi 5 secoli. La Federazione è impegnata a colmare questo svantaggio.
La quarta iniziativa scaturisce dal nuovo spirito di collaborazione che s’è instaurato tra la Federazione e la Biblioteca. Mi riferisco alla creazione di tre Centri di Consulenza tiflodidattica, sorti a Padova, ad Assisi e a Foggia, che integrano i 13 voluti dalla Biblioteca. A questi Centri la Federazione, nel marasma dell’ora che volge, assegna un ruolo fondamentale per la sensibilizzazione e per l’affinamento degli insegnanti di sostegno, la cui preparazione lascia sempre più non solo perplessi, ma addirittura sgomenti. I Centri dovranno fornire, come s’intitola significativamente la loro denominazione, consulenza alle famiglie, agli operatori della scuola e delle Asl, ma dovranno altresì favorire incontri con il bambino cieco, sovente abbandonato a se stesso e, per mancanza d’interventi precoci con personale preparato e con sussidi adeguati, esposto al pericolo dell’insorgenza di tutte le svariate forme di cechismo. Per l’importanza che la Federazione annette alla figura del Consulente tiflologico, l’ente ha aderito senza indugio alla richiesta d’inserire nel circuito nazionale dei Centri tiflodidattici quello da tempo operante presso 1'istituto di Palermo e quelli che stanno germinando presso il Martuscelli di Napoli e presso 1’istituto Messeni Localzo di Rutigliano. Movendo dallo stesso spirito, la Federazione sta avviando l’apertura di due altri Centri di Consulenza, uno ad Ancona e uno a Torino.
La quinta iniziativa si riferisce alla decisione consiliare di assegnare gratuitamente una certa quantità di materiale didattico ai Centri di trascrizione dei testi in Braille, poiché il Consiglio muove dalla consapevolezza pedagogica che anche il bambino cieco ha diritto non solo di disporre del proprio libro che, educativamente dicendo, costituisce il primo e imprescindibile sussidio didattico, ma anche che questo sia corredato, per quel che è tecnicamente possibile, di tutte le rappresentazioni tattili che lo accostino alla completezza di quello dei suoi coetanei integri di sensi. E, finalmente, la Federazione ha potuto cominciare a dotarsi di personale proprio, al fine di attuare i suoi scopi statutari e tiflopedagogici, superando la vita aleatoria e rapsodica che ne aveva caratterizzato l’esistenza fino al 1998. In questo spirito di servizio, la Federazione si prefigge di rendere più facile, più rasserenata e meno traumatica 1a vita di quelle generazioni di ciechi che, dantescamente dicendo, “questo tempo chiameranno antico”.
Se è vero che, come recita il verso, “ogni erba si conosce per lo seme”, è altrettanto certo che la vitalità di ogni seme si riconosce per la rigogliosa infiorescenza e per la saporosa infruttescenza a cui le linfe e gli umori sanno dar vita. Il chicco, gettato in un fecondo terreno nel 1921 e rinverdito nel 1997, ha creato la Federazione che, insieme con le più autorevoli consorelle, reca un suo apprezzato contributo alla rieducazione dei minorati della vista.
In questo contributo consiste l’originalità del nostro Ente. Questa, a chi ben consideri, significa fecondità. La Federazione, infatti, nell’atto in cui si ravviva, si adopra altresì a stimolare rinnovata vitalità anche nelle istituzioni, sollecitandole a rispondere alle nuove esigenze dell’integrazione nella scuola di tutti e a quelle dell’autonomia degli istituti scolastici.
La celebrazione dell’ottantesimo anniversario dell’Ente, perciò, costituisce, innanzi tutto, un “terminus ad quem”, cioè il punto di arrivo per una pacata riflessione sulla via irta di triboli e di spini che abbiamo percorso. Questa via va conosciuta, perché la memoria storica è ad un tempo un dovere morale e un’opportuna necessità. George Santayana ha scritto: “i popoli che si rifiutano di conoscer la loro storia sono destinati a ripeterla”. E, per noi ciechi, sarebbe un ben triste Calvario se dovessimo ripercorrere gli aspri sentieri che ci hanno condotto fin qui. L’anniversario però è anche un “terminus a quo”, cioè un punto di partenza per avviarci coraggiosamente, senza falsi protagonismi e senza stolti velleitarismi alla conquista di sempre più luminosi traguardi.
La Federazione continuerà a sostenere i ciechi nella lotta per il raggiungimento di quell’identità che, nel rispetto della loro diversità da cui non dovranno più essere costretti a faticose mimetizzazioni e nel ritrovato valore positivo dell’alterità, li ponga nella condizione di affrontare il cimento della vita non contro gli altri, né sugli altri, ma serenamente insieme con gli altri.