Tra sensi e intelletto
Cecità e forza dello sguardo interiore
Loretta Secchi
La parola intesa come equivalente estetico dell’immagine artistica
Si può raccontare un dipinto a coloro che non possono vederlo con gli occhi ma possono ricostruirlo nella mente con l’aiuto dell’immaginazione, dell’udito e del tatto? Qual è il ruolo della parola intesa come equivalente estetico dell’immagine? E come, in presenza di disabilità visiva, l’ascolto di una descrizione può essere aiutato dal contatto diretto con un’immagine tridimensionale, tattilmente percepibile? E quindi, usando i sensi residui vicarianti la vista, si può potenziare l’integrazione tra sensi e intelletto, contando sul contributo della tattilità, a supporto del racconto?
A queste domande è possibile rispondere affermativamente solo se, a una riflessione teorica su questi temi, segue una verifica concreta sugli effetti della ricerca applicata all’educazione estetica, in presenza di deficit visivo. La conoscenza del mondo della rappresentazione nei non vedenti è cosa complessa, e richiede molta prudenza ed esperienza nella valutazione della ricaduta cognitiva, psicologica ed emozionale, che l’interiorizzazione dell’opera d’arte comporta nelle persone minorate della vista.
Per stabilire se la metafora abbia un valore cognitivo, e se questo valore sia utile nel far vivere, o rivivere, un’esperienza estetica, è importante considerare a quale campo di indagine, filosofico, semiotico, psicologico ed estetico, essa afferisca. La ricerca attuale si rivolge a ciò che ancora oggi appare come un problema, e che non è tanto la realizzazione del senso, quanto il “luogo” del senso, cioè la lingua, o il testo, o la mente stessa dell’interprete. La metafora nell’esperienza estetica può determinare e forse facilitare la comprensione dell’opera d’arte, indipendentemente dalla natura del deficit sensoriale. Questo perché, in presenza di cecità, la metafora sarà espressa dalle parole, attraverso il linguaggio poetico, in presenza di sordità, la metafora sarà espressa attraverso il linguaggio iconico: in entrambi i casi essa porterà ad “altra” e ulteriore conoscenza dell’opera d’arte. Stabilire l’utilità della descrizione e della comunicazione dell’esperienza estetica, decidere se si può parlare di conoscenza quando questa è stata acquisita attraverso le percezioni sensoriali di altri, è necessario per dimostrare quale posto nel mondo sia riservato alle persone non vedenti congenite o acquisite. Per alcuni filosofi come Max Black e Martin Milligan, il linguaggio è uno strumento indispensabile con cui tutto può essere descritto, ma proprio per questo è altresì importante verificare se il linguaggio, opportunamente distillato e potenziato, possa realmente condurre all’esperienza estetica. Per tutto ciò è fondamentale che la parola, intesa come traduzione verbale di valori di forma, sia anche accompagnata dalla percezione tattile della forma dotata di valore estetico. Sappiamo che la parola, intesa come descrizione poetica, e narrazione, ricrea nella nostra mente l’immagine del mondo, risignificandone la rappresentazione iconica o aniconica. E come lo sguardo, accarezzando linee di contorno, superfici e volumi di un’opera pittorica, ci permette di ridisegnare l’immagine, così la mano, sfiorando linee, superfici e volumi a rilievo della sua traduzione tridimensionale, permette una conoscenza della composizione e del suo significato estetico. Ma è sempre nella mente, e nella connessione di percezioni sensoriali e conoscenze diffuse, che noi elaboriamo la visione, sia di natura ottica, sia di natura aptica. E mai il vedere è solo frutto della fisiologia dell’occhio o del tatto. L’elaborazione intellettuale della sinergia tra i sensi sta quindi alla base della visione, in relazione a una buona percezione di forma e contenuto. Occorre per questo il contatto diretto con la fisicità e occorre la potenza icastica della parola che, svelando il senso riposto della forma, ne rende possibile una visione interiore e una sua interpretazione. Serve un sentire sorretto da un sapere.
"Bisogna sempre scusarsi di parlare di pittura. Ma ci sono rilevanti ragioni per non tacerne. Tutte le arti vivono di parole", così scriveva Paul Valéry nel saggio del 1920 Scritti sull’arte, e da quell’affermazione noi ancora oggi deriviamo l’idea dell’uso della parola come equivalente estetico capace di tradurre in discorso un’opera d’arte. In fondo l’ekphrasis è descrizione del visibile in parole, come spiega Umberto Eco, in un suo recente saggio intitolato Dire quasi la stessa cosa.
Ma trattando la disabilità visiva, non si può abusare della parola: essa è fondamentale solo se non induce al verbalismo e solo se rafforzata dall’esperienza concreta del suo significato entro i diversi contesti in cui è utilizzata.
Presso il Museo tattile di pittura antica e moderna Anteros dell’Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza, dal 1999 si studia un metodo didattico atto a potenziare le facoltà cognitive e interpretative delle persone minorate della vista. Lo scopo è pervenire a una condivisione di modi della rappresentazione visivi, resi tattilmente leggibili, funzionali a facilitare la comunicazione e l’integrazione scolastica, sociale e professionale tra persone non vedenti e vedenti.
Attraverso l’esperienza del vedere più profondamente, grazie alle facoltà analitiche del tatto, si ha anche modo di riflettere compiutamente sulle potenzialità della vista e sulla forza dello sguardo interiore. Saper leggere analiticamente, e poi in sintesi, la realtà, è una forma di rispetto per la complessità del mondo e una forma di sana volontà di semplificazione dello stesso, non riduttiva, affinché ogni processo conoscitivo possa essere interiorizzato, rivissuto e condiviso, senza la pretesa di renderlo paradigma indiscusso, schema rigido, ma piuttosto considerandolo un modello a cui ispirarsi. La profondità dello sguardo dipende dalla capacità di correlazione tra quegli aspetti della vita intellettuale e fisica che, costituendo la nostra percezione della realtà, ci aiutano a codificare e decodificare ogni nostra esperienza per ciò che siamo, per come creiamo assonanze, coerenze, relazioni tra fenomeni. In questo modo, vedere è sentire e sentire è conoscere.
Non affinando la pratica del sentire, che richiede di aprire in tutti i sensi la propria ricettività, si rischia di precostituire la visione, con il risultato di non affrontare lo sforzo di comprendere il valore della difficoltà, metafora dell’incognito. E incontrare la difficoltà significa leggere nella individuale potenzialità, nel superamento della paura di tutto ciò che può generare una crisi, creando confronto. Accettare una sfida con la complessità, significa anche avere la forza di esplorare se stessi, per scoprire le effettive
risorse interiori e la segreta volontà, che ognuno custodisce in sé, di orientarsi a una metamorfosi evolutiva, spostando di volta in volta il proprio limite. Come spiega Angelo Errani, riferendosi alle teorie di Vygotskij, “Una disabilità, proprio perché costringe ad incontrare degli ostacoli, determina, nel soggetto che ne sperimenta gli effetti, anche una ricerca di strategie per superarli e attiva una riorganizzazione delle risorse della persona.” Ecco perché è utile percepire il filo rosso che lega la vita delle forme del pensiero psichico e spirituale; parimenti utile è leggere l’arte come rappresentazione dell’umano e della sua tensione conoscitiva, tra istinto e coscienza. L’arte è proiezione delle infinite variabili con le quali esprimiamo i nostri bisogni più autentici e le nostre speranze: è memoria e sintesi dei nostri processi interiori, frutto dell’essere al tempo stesso eredi spirituali delle esperienze passate e donatori di esperienze per il futuro delle generazioni a venire. Un’arte che non possa essere comunicata nel suo senso più profondo e convertita in autonome consapevolezze e abilità, non ha funzione educativa, e non può aprire alla forza di divenire artefici del propria interiorità. Conoscere la vita, nelle sue gioie, dolori, perdite e riconquiste, significa riconoscere le molte forme dei linguaggi visivi e ciò che l’umano raffigura del sé. La convergenza delle forze prodotte dall’immaginazione avvalora la facoltà trasmutatoria che l’uomo ha in sé e ne delinea il carattere di tramite “mentale” che muove la simbiosi tra visione intellettiva e percezione sensibile. I simboli e le metafore sono il risultato di coscienti elaborazioni, scomposizioni e composizioni di figure tratte dal mondo sensibile ed evocative di un mondo altro, intelligibile. Attraverso l’uso del linguaggio e per analogie, facendo del tatto la sede delle proprie esperienze, il non vedente congenito arriva alla comprensione del mondo a tal punto che, a sua volta, riesce a dare una felice interpretazione delle cose esistenti da lui percepite, come spiega il filosofo illuminista Denis Diderot, nella Lettera sui ciechi per quelli che ci vedono: “[…] poiché non c’è lingua che non sia povera di parole appropriate per gli scrittori con una viva immaginazione, questi sono nella condizione degli stranieri dotati di spirito, le situazioni che inventano, le sfumature delicate che colgono nei personaggi, la naturalezza che conferiscono a certe rappresentazioni li scostano di continuo dal parlato comune, e fanno adottare loro espressioni ammirevoli. […] ” Non tutta la conoscenza arriva tramite l’esperienza, ma come può avvenire nel cieco congenito un’esperienza legata all’estetica, usando come mezzo le parole? E’ qui che interviene il confronto diretto con un linguaggio metaforico, in grado di risvegliare conoscenze in analogia con gli altri sensi, facilmente comprensibili: e le più efficaci sono certamente quelle dette sinestesiche. La sinestesia è infatti una stimolazione sensoriale influenzata dall’intervento degli altri organi di senso o di tutto l’organismo; nell’arte si manifesta nella percezione emozionale delle immagini e qui la metafora sembra giocare un ruolo costruttivo, in quanto luogo d’incontro privilegiato tra linguaggio e sinestesia. Nella tradizione della critica e della teoria dell’arte del secolo scorso si annoverano celebri descrizioni di opere d’arte che adottano un linguaggio figurato volto a svelarne i tratti significativi, potenziandone la conoscenza per effetto di immagini forti che si sovrappongono al soggetto descritto, onde colmare una parte di conoscenze rivolte principalmente a dati storici, strutturali e compositivi. Qui la funzione della parola è di trattenere lo sguardo e la mente del fruitore, così da permettergli di viverne appieno la vicenda, suscitando in lui un modo partecipativo che è anche aderenza all’essenza e al significato più profondo e sostanziale dell’opera. Un caso emblematico di questo modo di intendere la ri-creazione verbale dell’opera d’arte è rappresentato dalla descrizione della Vocazione di San Matteo, opera mirabile di Caravaggio, “tradotta” dal celebre storico dell’arte Roberto Longhi: […] Non v’è vocazione di Matteo senza che il raggio, assieme col Cristo, entri dalla porta schiusa e ferisca la turpe tavolata dei giocatori d’azzardo. […] La luce che rade sotto il finestrone, spartita dall’ombra come in un quadrante regolabile, lascia riflessi fiochi sulla sordida impannata: sospende nell’aria grave del Cristo mentre l’ombra corrode il suo sguardo cavo; striscia sulle piume, si intride nelle guance, si specchia nelle sete dei giocatorelli; sosta su Matteo mentre, raddoppiando ancora con la destra la puntata, addita se stesso, quasi chiedesse: "Vuol me?" (e il viso scocca dall’angolo delle palpebre sbarrate il ciglio dell’ombra); spiuma confusamente la canizie del vecchio importuno in occhiali; per ultimo, fruga viso e spalle del giocatore a capotavola che vorrebbe immergersi nell’ombra lurida della propria perplessità […].
La tavolata è “turpe”, ossia brutta, e il termine che la definisce ha, in questo caso, valenza morale. La tavola si umanizza, diventa sintesi di ciò che i personaggi rappresentano nella scena, ne assorbe e riflette tutte le loro caratteristiche. “Sordida impannata”: l’intelaiatura della finestra è aggettivata da un termine che si accorda alla “turpe tavola”, è infatti sporca, moralmente avara, esattamente come i giocatorelli. L’aria è “greve”, pesante, il viso “scocca”, la canizie “spiuma”, le sensazioni si attardano così sull’ambiente e sui gesti e visualizzano l’atmosfera satura in cui si manifesta, per contrasto, il “risveglio” di Matteo.
Le argomentazioni sopra esposte, nel loro complesso, conducono a una riflessione accurata sul fondamentale apporto comunicativo, introspettivo e conoscitivo, che le arti visive possono offrire anche e proprio alle persone disabili della vista, se esperite mediante il supporto della descrizione e della percezione sensibile della forma. Per potenziare la natura visiva del linguaggio verbale, all’interno del Museo tattile di pittura antica e moderna “Anteros”, dell’Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza, sono esposte traduzioni tridimensionali di celebri dipinti e descrizioni storico-artistiche che hanno il compito di dare corpo e forma comunicabile all’immaginazione del fruitore, altrimenti non condivisibile, tra vedenti e non vedenti. I capolavori della pittura, tradotti in bassorilievo prospettico e narrati in linguaggio descrittivo ed evocativo, sono selezionati secondo criteri di notorietà e significatività cognitiva ed espressiva. Ogni dipinto, introdotto storicamente e poi descritto attraverso la ricostruzione della sua genesi, iconografia e iconologia, significato e aderenza rispetto al contesto culturale d’appartenenza, viene illustrato insieme alla poetica e alla biografia dell’autore. L’utilità dell’uso del supporto plastico, adottato nella didattica museale unitamente alla descrizione verbale, dimora nella narrazione e nel concreto riconoscimento dei valori estetici di un’opera d’arte, reificata nella mente, a “occhi chiusi”.
La funzione evocativa e colmativa della parola, in sostituzione della percezione ottica e tattile, è una possibilità di conoscenza intellettuale e immaginativa che non deve però sottrarre al piacere e al valore cognitivo della percezione sensoriale: piuttosto, può evidenziare l’importanza del rapporto tra immagine e contenuto, forma e sostanza di un’opera d’arte intesa come riflesso dello spirito di un’epoca e di una cultura. Il processo immaginativo attraverso il quale ricostruiamo un dipinto, nella sua natura iconica, prevede che in ogni caso si faccia spazio, nella mente e nel sentimento, alla connessione dei saperi, alla relazione tra memoria sensoriale e rappresentazione mentale delle forme.
L’esperienza estetica è data dall’incontro di emozione e ragione, da cui deriva una conquista intellettuale che nasce dalla disposizione del nostro animo nel momento in cui apprendiamo un contenuto e lo reinterpretiamo. E’ questa, anche e non solo, la forza dell’immaginazione, che non è mai sterile congettura o fantasticheria autoreferenziale: al contrario, si nutre del contatto e della ricerca di comuni denominatori tra pensiero collettivo e individuale, supportata dall’esperienza. Essa annulla, dunque, ogni separazione tra soggetto e oggetto, e porta entrambi all’unicità della comprensione, vera opera, poiché tra pensiero e arte, tra spirito e materia, vi è un’autentica vicinanza. La convergenza delle forze prodotte dall’immaginazione avvalora la traduzione della rappresentazione visiva in racconto, e decreta la simbiosi tra visione intellettiva e percezione sensibile: ma è anche necessario acquisire una competenza metodologica atta a valutare l’utilità della teoria dell’arte e degli strumenti critici necessari per maturare l’autonomia di giudizio. La descrizione puntuale, ancorché tecnica, è narrazione della poetica di un artista, del sentimento delle forme dotate di valore estetico e per questo, nel raccontare le opere d’arte, è opportuno associare la storia al pensiero di un’epoca, attualizzandone il contenuto. In un affresco a soggetto cristologico di Giotto o nella narrazione delle mitografie neoplatoniche, per effetto del raccordo tra arte, letteratura, storia e filosofia, possiamo rintracciare le forme dell’essere, quindi le categorie attraverso le quali definiamo gioie, dolori, bellezza, bruttezza, tempeste dell’animo e quiete, sentimenti che le opere d’arte accolgono e che spesso i soggetti mitologici ci descrivono con grande sensibilità. Così, attraverso la conoscenza di alcune iconografie, possiamo scorgere qualcosa che ci appartiene nel dolore composto di una madre al cospetto della morte del figlio, nella delicatezza o severità di un ritratto, nella poesia di un paesaggio, nella bellezza incantevole di una dea o nella verità che si cela in un mito. Concentrarsi sulla forza evocativa e colmativa della parola non significa eludere il valore insostituibile della percezione sensibile del visivo, piuttosto riconoscere la funzione vicariante e complementare dei sensi. L’esperienza d’ascolto nella corrispondenza della parola con il visivo, insegna soprattutto la comprensione di ciò che, restando comunque invisibile, trova la migliore rappresentazione nell’uso della metafora, rispettando il codice di rappresentazione condiviso.
Funzione dell’esperienza estetica nell’educazione permanente degli adulti normododati e disabili della vista
L’apprendimento permanente è una risorsa alla quale ogni persona può attingere, anche attraverso l’educazione estetica. L’acquisizione di una abilità, infatti, svela potenzialità individuali e collettive che dimostrano come un approccio conoscitivo a ogni arte e disciplina conduca all’interiorizzazione di competenze psico-percettive, sensoriali e intellettuali.
La creazione artistica è incontro tra plenum e forma: quindi tra percezione indiscriminata e capacità di organizzazione dei dati sensibili. Per questo la natura conoscitiva dell’atto interpretativo è centrale in una storia dell’arte intesa come scienza e come storia delle idee, ma è ancora più essenziale se l’obiettivo di una didattica speciale delle arti è l’integrazione tra persone di età e formazioni culturali differenti, sia in presenza che in assenza di deficit sensoriali. Nel caso della disabilità visiva, ad esempio, la relazione tra percepire tattilmente e vedere mentalmente costituisce oggetto di indagine nell’esame dei processi di apprendimento e significazione delle immagini dotate di valore estetico. Il rapporto esperienziale e teoretico dell’uomo con la realtà e la sua rappresentazione trasfigurata è anche per questo, da sempre, oggetto di studio dell’estetica, della psicologia dell’arte e della percezione, perché la sensibilità agisce nell’arte e riverbera concretamente nella vita.
La definizione di esperienza estetica richiede la considerazione dei comportamenti conoscitivi e valutativi dell’individuo, tenendo presenti la sua provenienza, formazione, cultura, età, condizione. Ogni approccio con la rappresentazione dotata di valore estetico presuppone, pertanto, un inquadramento delle condizioni percettive e cognitive del soggetto e un esame della sua cultura. L’esperienza estetica ha quindi molteplici funzioni poiché apporta trasformazioni intellettuali sia nelle persone normovedenti che nelle persone disabili della vista. La stessa evoluzione culturale, fisiologica e psichica che un percorso didattico genera in persone adulte di diverse età, determina e conferma tanto la mutevolezza dell’approccio con l’opera d’arte, letta come summa e riflesso dell’umano, quanto la ricchezza di impulsi e abilità che questa apertura determina. L’arbitrarietà del giudizio di valore e le differenze di maturazione di percezioni, sentimenti della forma, interiorizzazione di contenuti, accettazione ed elaborazione di valori estetici e storici, fanno sì che proprio tali elementi costituiscano i fondamenti dell’esperienza estetica, di riflesso determinandone qualità, sviluppo e funzione. Questa consapevolezza è costantemente avallata, nell’insegnamento della storia dell’arte come storia dell’immagine e delle idee in essa custodite, dalla pratica didattica e dalla pragmatica conoscitiva attuata dai discenti. In particolar modo il fenomeno della differenziazione e condivisibilità dei comportamenti percettivi e dei codici di significazione delle forme e delle immagini risulta importante nell’esperienza estetica dei bambini e degli adulti, in quelle stagioni della vita che scandiscono il passaggio dall’infanzia alla giovinezza, ma anche dalla maturità all’anzianità. L’approccio al valore informativo, espressivo, psichico e poetico dell’immagine, cambia considerevolmente nel corso della vita e svela interessanti meccanismi di autonoma appropriazione delle conoscenze culturali e loro conversione in intuizioni esistenziali, talvolta grazie a consapevolezze che maturano mediante processi logici, intuitivi e analogici. Non impropriamente si dovrebbe parlare di una fenomenologia dell’apprendimento, quindi di modi della comprensione ricorrenti, che nella percezione sensoriale e nell’elaborazione intellettuale di forme e contenuti si offrono come parti integranti di un pensiero creativo, per molti aspetti rigenerativo.
Riconoscere valore al contributo che la percezione tattile porta alla conoscenza delle arti visive, e dei valori di forma e contenuto che in esse dimorano, significa anche avere valutato i concetti di tattilità dell’occhio e otticità del tatto, affinché né solo alla vista, né solo alla tatto siano delegati compiti che sono invece la risultante dei due sensi integrati. Tuttavia, in presenza di disabilità visiva, il senso della vista risulta vicariato, a pieno diritto, dal senso del tatto e sostenuto dal ruolo fondamentale dell’udito, quindi dell’ascolto di un racconto che riorganizzi e crei sequenze di contenuti. Intraprendere un percorso conoscitivo articolato che porta alla comprensione dei concetti di relazione tra elementi, temporalità, spazialità, parzialità e compiutezza della visione, attraverso una matura percezione tattile, significa considerare la natura intuitivamente plastica e sinottica della rappresentazione pittorica, per farla propria attraverso un processo di scomposizione e ricostruzione mentale dell’immagine.
La psicologia e la pedagogia speciale delle arti hanno riconosciuto che il mondo dei ciechi non è sostanzialmente distante da quello dei vedenti, anche nella conoscenza dei concetti spaziali. La differenza riguarda piuttosto il modo in cui non vedenti e vedenti elaborano e controllano direttrici e condotte spaziali. Non dobbiamo dimenticare che alcune azioni tattili predispongono maggiormente alla percezione della fisicità della forma (intesa come corpo solido dotato di peso specifico) ed altri movimenti sono più indicati alla visualizzazione della sua architettura geometrico-morfologica (strutturale e sostanziale). Sia la percezione visiva che quella tattile possono essere definite sequenziali, anche se la durata del procedimento esplorativo esercitato con gli occhi è infinitamente più veloce di quello svolto mediante la tattilità. Vi è un tempo della lettura ottica e tattile che possiamo definire tempo della costruzione dell’immagine in cui percezione delle forme, riconoscimento degli elementi, significazione della composizione, concorrono a determinare il complesso fenomeno della visione.
Si può comprendere pertanto l’importanza di una educazione alla tattilità vicariante la vista che, oltre a rafforzare i processi cognitivi nei non vedenti, permetta anche ai normovedenti di riabilitare una sensorialità troppo spesso inibita. Come nella persona disabile della vista l’educazione al buon uso dei sensi residui è un percorso formativo che riverbera nella sfera emozionale e intellettuale, così nella persona adulta normovedente un corretto sviluppo della sensorialità rafforza la coscienza delle proprie abilità percettive e cognitive e insegna a vedere con più profondità e ordine fuori e dentro se stessi.
E’ inoltre opportuno riflettere sull’esistenza di forme di cecità psicologica che possono interessare indistintamente persone molto diverse tra loro, soprattutto in età adulta, qualora a un sistema collaudato di comportamenti visivi ne subentrino di inconsueti. Tutto ciò che si offre come dato nuovo può risultare estraneo al proprio mondo e quindi soggetto a implicito rifiuto. Ma la capacità visiva è sia riconoscimento del noto, sia confronto con la difformità e per questo prevede conflitti emotivi superabili solo mediante una volontà conoscitiva vitale e dialettica.
Il sistema neurofisiologico con il quale apprendiamo le forme del mondo, mediante esperienza diretta con la realtà e attraverso la percezione sensoriale dei linguaggi della rappresentazione, fin dall’età infantile agisce costantemente, ma è l’educazione sensoriale a determinare la qualità dell’uso emozionale e cognitivo dei cinque sensi. Nei bambini ciechi precoci tale elaborazione sensoriale e cognitivo-emozionale avviene più lentamente, a prezzo di maggiori difficoltà e necessarie stratificazioni, e spesso si tratta di una conquista non lineare perché maturata attraverso esperienze differenti, sia pur assimilabili e tra loro integrabili.
Nell’esperienza aptica esercitata a scopi cognitivi e interpretativi, le tecniche di esplorazione tattile delle opere d’arte presentano numerose variabili e coinvolgono azioni apparentemente impercettibili ma in realtà decisive per il processo di ricostruzione mentale dell’immagine.
Nella lettura di un’opera d’arte pittorica, la relazione con l’originale, la visione della riproduzione fotografica o la percezione della traduzione plastica, sono condizioni che modificano nettamente la risposta emotiva ma non sempre quella cognitiva. E’ doveroso portare l’osservatore-lettore alla consapevolezza che sussiste una differenza considerevole (non un ostacolo alla conoscenza) tra rapporto diretto o indiretto (mediato) con l’opera d’arte, e ciò in relazione al fatto che si esamini un’opera d’arte originale, oppure la sua riproduzione fotografica e/o plastica. Ciò deve essere considerato come dato rilevante ma non può costituire una discriminate nell’esperienza dell’apprendimento didattico-pedagogico. Talvolta, comportamenti valutativi indotti rischiano di andare a detrimento di una cosciente concezione dell’esperienza estetica, e quindi delle “visioni” possibili di un’opera d’arte. Nel caso specifico della percezione di un’immagine artistica tradotta in bassorilievo prospettico, tattilmente percepibile, lo scarto tra vedere l’originale e la sua riproduzione è maggiore di quanto non sia lo scarto tra vedere l’originale e la sua riproduzione fotografica. Dinanzi a qualsiasi rappresentazione dotata di valore estetico, è importante percepire fisicamente la natura materiale dell’immagine (quindi poter soppesare, avvertire la qualità delle sostanze o la temperatura del materiale) e risulta fondamentale includere, per poi trascendere, la componente materiale e tecnica. Solo in questo modo, percezione e significazione dell’opera risultano summa conoscitiva orientata a una sensibile trasfigurazione semantica dell’immagine. Evocare in noi stessi la memoria delle caratteristiche morfologiche, spaziali, fisiche ed espressive delle forme e delle sostanze ivi incluse, soprattutto se la natura dell’immagine artistica, in originale o in copia o in traduzione, presenta referenti riconducibili alla nostra esperienza, significa percepirne, come precedentemente evidenziato, sinestesicamente, le qualità estetiche. Le tecniche di esplorazione tattile hanno pertanto una componente “fisica” che prevede azioni utili alla conoscenza delle strutture compositive di un’immagine tridimensionale, ma non per questo escludono l’apertura ad un’esperienza estetica più completa e polivalente. Con questi presupposti, diventa utile sottolineare come una corretta educazione all’immagine per non vedenti e ipovedenti presenti i requisiti della costruzione mentale e graduale delle tecniche di percezione dello spazio, del tempo testimoniato dallo spostamento dei corpi all’interno di una composizione, della natura spazio-temporale della scena, spesso suggerita dalla progressione imposta dalla narrazione nel descrivere e far rivivere le dinamiche di relazione e interazione tra soggetti.
Tra tempo interno al quadro (tempo della narrazione della scena) e tempo della lettura, sia ottica che tattile, esiste il comune denominatore della sequenzialità e della stratificazione organizzata di concetti e informazioni ricevute dalla percezione aptica della forma e dalla descrizione verbale dei suoi contenuti. La guida alla lettura della composizione pittorica trasposta in rilievo plastico impone molta attenzione alla corrispondenza tra percezione e cognizione, tra informazione ricevuta ed elaborazione personale dei dati, e per questo si avvale del modello tripartito di lettura e interpretazione di memoria panofskiana. A partire da questo modello, le letture preiconografica e iconografica e l’interpretazione iconologica, per strutturazione e loro correlazione, altro non sono che fasi corrispondenti alla progressione conoscitiva grazie alla quale passiamo dalla percezione delle forme e dal riconoscimento dei soggetti primari, all’individuazione del loro significato associato a un tema, fino ad approdare all’estensione di senso dell’iconografia, letta e interiorizzata oltre il suo significato storico-culturale circoscritto. In tal modo con l’interpretazione iconologica si coglie il significato intrinseco e più profondo di un soggetto tematico, elevandolo a emblema e metafora di “altro”. La lettura di un’opera d’arte, così concepita, può divenire un’esperienza educativa e conoscitiva che orienta alla profondità della visione, indipendentemente dalla modalità percettiva con la quale si procede nell’incontro con l’opera, e a prescindere dalla presenza o assenza di deficit visivo.
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