Archeologia da toccare

di Daniele Vitali (Université de Bourgogne)

Al museo di Monterenzio una sezione tattile per non vedenti.

Sono felice di chiudere la mia esperienza trentennale di direttore scientifico del Museo archeologico "L. Fantini" di Monterenzio con queste due pagine che mi sono state richieste dagli amici dell'Istituto Francesco Cavazza, di Bologna.
Queste righe rapidissime vogliono sottolineare da un lato il legame di amicizia che col "Cavazza" continuo a mantenere fin dagli anni "impegnati" dell'Università e dall'altro quella che è stata da sempre la finalità del mio impegno a Monterenzio: trasferire alla gente, ai non specialisti di archeologia, il contenuto e il risultato del mio lavoro di archeologo.
Ora, come molti sanno, ho lasciato Bologna per passare all'Université de Bourgogne, a Digione, dove per qualche anno cercherò di essere utile soprattutto agli studenti di archeologia e di etruscologia; non per questo il mio rapporto e il legame con Monterenzio si interrompono; la distanza forse faciliterà la realizzazione da parte mia di alcune imprese in corso d'opera, come la pubblicazione degli scavi dell'abitato di Monte Bibele e quelli della necropoli di Monterenzio Vecchio.

Foto - Interno del Museo Archeologico di Monterenzio

Il mio nuovo lavoro mi esenta dagli impegni di coordinamento scientifico che ho assunto in modo intenso negli ultimi anni e che saranno evidentemente presi da altri; ma a Monterenzio tornerò per concludere ciò che devo. E in ogni caso a Monterenzio lascio un pezzo consistente del mio lavoro e della mia vita, sia lavorativa che personale.
Entrando nei cortili del Cavazza, più di un anno fa, temevo di riaprire una dimensione conclusa nei primi anni '70; più o meno come quando gli amici di un liceo si ritrovano 10 anni più tardi per una cena di classe e si scoprono diversi, cambiati, spesso goffi nel tentativo di tornare ad essere quelli di un tempo. Temevo appunto che al Cavazza clima, persone, legami, fossero mutati.
Non erano ancora fiorite le rose rampicanti gialle e rosse del cortile che costeggiavano le mie passeggiate di lettore anni '60 sul ballatoio del Cavazza, ma il profumo di cera dei pavimenti era esattamente lo stesso, qualche elemento di novità, l'ascensore, quindi l'incontro col direttore, Mario Barbuto, come ai vecchi tempi. Trent'anni, mai passati.
Tutto bene dunque e abbiamo cominciato a parlarne.
Tra il 1978 e il 2010 il Museo di Monterenzio ha costituito una realtà locale grintosa, con pochissimi mezzi ma con moltissima voglia di fare, che ha difeso il proprio diritto di approfondire la storia del proprio territorio e del proprio passato malgrado e contro le rigidità di un sistema di tutela più attento ai formalismi che alla sostanza ed all'efficacia delle azioni, più pronto a diffide che a proposte.

Immagine - Manifesto inaugurazione del Museo Tattile di Monterenzio

L'inaugurazione della sezione tattile del museo ha costituito uno degli ultimi esempi di fastidiosa discrezionalità degli atti burocratici, ma noi siamo andati avanti lo stesso, perché ci interessava il risultato.
Ciò che contava era il fatto di potere inaugurare una parte che integrava i diversi percorsi del nostro Museo, che contiene, come è noto, soprattutto gli straordinari materiali di Monte Bibele (abitato, necropoli, santuario) e di Monterenzio Vecchio (necropoli). Una delle rarissime realtà della nostra regione dove il IV e il III secolo a.C. sono documentati in maniera eccezionalmente completa.
Se per un museo che contiene sculture è relativamente semplice proporre al pubblico dei non vedenti o degli ipovedenti il calco di un'opera di marmo o di bronzo, -qui sì dopo le "dovute" autorizzazioni ministeriali!- l'opera da toccare, rigirare tra le mani, pesare per un museo, che protegge nelle vetrine tutto ciò che espone… qui la sfida era più complessa.
Come presentare una lama di spada in ferro di un guerriero celta, deformata dalla corrosione di 2300 anni di tempo, fragilissima dunque e per di più intoccabile perché protetta da un cristallo? Una ricostruzione fatta ad opera di uno straordinario artigiano (Vincenzo Pastorelli, in arte Hephaestus) che su precise indicazioni mie e di altri specialisti, ha riproposto misure, confrontato fogge, fatto prove fino ad ottenere una lama a due tagli e appuntita, identica alla spada della tomba 107; lo stesso per il fodero formato da due lamine di qualche decimo di millimetro, con incastro a pressione e puntale triangolare con trafori e così via. Uno scudo di legno con rinforzo formato da un segmento di ferro, la lancia, il giavellotto. In futuro, tale dotazione di armi potrà essere ulteriormente arricchita, chissà. Vincenzo ha usato la sua fucina, ferro, martello, braci incandescenti, la forza delle braccia e il suo sapere, per creare un'arma pronta per l'uso, per colpire di stocco e di punta, leggera e rapida, come quella della tomba del guerriero 107, morto però all'età di circa 30 anni perché il suo avversario fu più rapido di lui. Grazie anche ad Ilaria Raspadori che ha invece realizzato uno specchio etrusco della fine del IV sec. analogo a quello della tomba 101. Lo specchio presenta una decorazione incisa con scene che si ispirano al mondo degli eroi omerici, ma è la parte opposta, quella convessa, che riflette le immagini, il volto di una persona, con un dettaglio un po' più sfumato di quello di uno specchio moderno.
Altri amici dei gruppi di rievocazione storica celti e boi del Bolognese, hanno poi completato l'arredo e le
porte di chiusura della casa celto-etrusca che sorge nel parco del Museo. Nelle sale, gli intervalli tra vetrina e vetrina si sono dunque riempiti di oggetti da toccare, selezionati tra quelli recuperati dagli scavi archeologici, ma, diversamente da quelli, quasi freschi di fabbrica: due strigili per detergere il corpo degli atleti, come nelle statuette etrusche di V e IV sec. o come nell'apoxiòmenos di Lisippo (350-325 a.C.); lo specchio di bronzo, tipico del mondo femminile; le armi celtiche; gli spiedi e gli alari per la cottura delle carni su griglia o con spiedi; un candelabro di ferro; una serie di statuette di bronzo che rappresentano la devozione degli Etruschi nei confronti di una sorgente d'acqua sul Monte Bibele; alcuni vasi di ceramica e via dicendo.
L'apporto degli amici del Cavazza è stato quello di trasferire in Braille i testi di didascalie in nero e di dare rilievo alle piante di alcune tombe o dell'abitato etrusco-celtico di Monte Bibele. Un apporto essenziale perché, curiosamente, sono stati proprio questi ultimi strumenti di informazione che hanno interessato maggiormente il pubblico dei normovedenti.
Per rendere comprensibile e di facile lettura la pianta dell'abitato etrusco-celtico è stato necessario giungere alla parte essenziale della documentazione di un abitato d'altura, separare i gruppi di case dalle strade che li delimitano, evidenziare la grande cisterna collettiva ai piedi dell'abitato stesso. Facile ed efficace e. senza perdita di informazione. Molte prove diverse sono state fatte per arrivare all'optimum informativo, fino a trovare la soluzione migliore.
Evidentemente si potrà fare di meglio, ma una pietra è stata lanciata e posata ed è possibile che in futuro il tutto possa essere ulteriormente perfezionato, soprattutto in previsione dell'ampliamento delle aree espositive. Se si vorrà dare nuova visibilità alle nuove scoperte e completare così la presentazione.
In questa occasione non posso che esprimere la mia gratitudine a Mario Barbuto e a Giovanni Cellucci per l'efficacia, nonchè a Vincenzo ed Ilaria per l'amichevole e concreta collaborazione e a Nicola Bianca Fàbry per il coordinamento dell'operazione e il tangibile aiuto.
Per effettuare i supporti dei materiali esposti abbiamo usufruito dei contributi della L.R. 18 Regione Emilia-Romagna, ringraziamo così la Provincia di Bologna, l'IBC e la Fondazione Carisbo, che anche in questa occasione sono state preziose.

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