Giustizia e verità per le vittime dei crimini di guerra

“Non si può rinunciare a capire, non si può smettere di conoscere": storia, emozione e un dolore condiviso nel libro di Agnese Pini "Un autunno d'agosto"
Silvia Colombini

Agnese Pini, prima direttrice donna del quotidiano “La Nazione”, e anche delle testate del network Quotidiano Nazionale “Il Resto del Carlino” e “Il Giorno”, non è solo una grande giornalista. Infatti, si è dimostrata scrittrice sensibile e partecipe, capace di riportare in vita con il suo libro “Un autunno d’agosto” un episodio dimenticato della Seconda Guerra Mondiale. Una strage feroce nazifascista che ha colpito anche la sua famiglia a San Terenzo Monti, piccolo paese nella Lunigiana. Un testo carico di emozione, destinato a rimanere nel cuore dei lettori anche in futuro perché certe memorie non siano mai dimenticate. Agnese Pini ha scelto di raccontare la verità per rendere giustizia alle vittime. Giustizia e verità, parole che troppo spesso nel nostro Paese sono senza significato, ma che nella storia di Agnese Pini risuonano pagina dopo pagina in tutta la loro potenza.

“Un autunno d’agosto” è un titolo poetico, straniante e incuriosente. Come l’ha scelto?

Quella frase l’ho trovata incisa su una mattonellina di marmo che compone la cappella comune dove sono sepolte le vittime dell’eccidio. È un’incisione anonima, io non so chi sia l’autore di questa frase. Quando sono andata in visita al cimitero mi è caduto l’occhio su quella piccola mattonella con l’iscrizione. Ho pensato “questo è il titolo del libro” è una cosa che ho deciso immediatamente, è così evocativo. Mi piacerebbe rintracciare l’autore, ma anche in paese nessuno sa chi sia.

Agnese Pini - © NEW PRESS PHOTOLa storia della sua famiglia si intreccia con quella del nostro Paese. Creare una memoria condivisa può sensibilizzare su temi come violenza, ingiustizia e discriminazione, ancora attuali?

Io credo che solo la condivisione del dolore riesca a dare a quel dolore una dignità, proprio perché diventa collettivo. La cosa più frequente, e anche più pericolosa, è che quando si subisce un trauma, un dolore, ci si chiude nel silenzio, ci si vergogna di quel dolore, non si comunica perché lo si vive con po' di colpa. È il tratto caratteristico delle vittime. Invece, quando il dolore diventa collettivo, diventa condiviso, perché tante persone si riconoscono in quello stesso dolore e così è più facile affrontarlo. Le stragi nazifasciste della Seconda Guerra Mondiale in Italia, come tutti i crimini di guerra che in ogni tempo e in ogni luogo si ripetono identici purtroppo, appartengono sempre a un dolore condiviso perché in quelle stragi si distruggono comunità intere. Nella strage di San Terenzo Monti, come in quella di Marzabotto, o di Sant’Anna, di My Lai in Vietnam, di Bucha in Ucraina o come l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, si vanno ad annientare intere comunità e, per una ricostruzione morale, poi non basta una vita. Ci vogliono generazioni per ricucire quel tessuto che si è andato a strappare, e spesso è così difficile ricostruirlo perché le vittime non parlano. Il tentativo di costruire un libro corale in cui non ci fosse solo la storia della mia famiglia, quindi il dolore privato, ma il dolore pubblico della comunità intera, che simbolicamente rappresenta le troppe comunità che sono state travolte da quei crimini orrendi, è stato fondamentale per rendere la dimensione collettiva del dolore che, appunto, è curativa.

Raccontare la realtà è un modo per rendere giustizia e per cercare la verità?

Il libro "Un autunno d'agosto" di Agnese Pini - Editore ChiarelettereÈ stato anche questo, perché nelle stragi nazifasciste in Italia c’è un minimo comune denominatore, quello della giustizia negata. I sessantamila morti per crimini di guerra in Italia tra il 1943 e il 1945 per la grande maggioranza non hanno avuto processo e quindi giustizia, condanne per molti motivi. Per ragioni di Stato, perché non era opportuno andare a infastidire il nuovo alleato tedesco della Germania dell’Ovest che doveva rientrare in una grande orbita occidentale, mentre il mondo era diviso nei due blocchi Est e Ovest. E poi perché gli italiani stessi si erano macchiati di crimini di guerra orrendi in Grecia, in Albania, nel Nord Africa e c’era la paura che qualcuno, da questi Paesi, pretendesse l’analoga giustizia a casa propria. I processi sono stati fatti solo in tempi recentissimi e, quindi, in modo inevitabilmente parziale, perché la maggior parte dei carnefici e delle vittime non c’era più. L’idea di ricostruire anche storicamente e giuridicamente i fatti di quella specifica strage diventa straordinariamente importante perché le verità giudiziarie, e questo lo dico da giornalista, hanno un valore enorme. Si traducono sempre in verità storiche. Il processo, la carta della verità giudiziaria diventa inoppugnabile e aiuta a ricostruire una verità storica non inquinata da ombre, pregiudizio, che non sia manipolabile. Noi oggi non abbiamo ancora una memoria condivisa anche per la pagina di queste stragi, assolvendo il ruolo degli italiani, quando invece c’eravamo sempre. C’erano i repubblichini, i collaborazionisti che aiutavano i nazisti nel compiere questi orrori. E se noi oggi abbiamo solo memorie familiari e non una memoria di Nazione condivisa è proprio perché mancano le verità giudiziarie oggettive che poi possono diventare verità storiche. Per questo è importante ricostruire in maniera analitica quanto è accaduto e siamo sempre in tempo per farlo. Uno dei pochissimi casi in cui è stato fatto un processo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale è per la strage di Vinca, un paesino molto vicino a San Terenzo Monti, in cui qualche giorno dopo la strage di San Terenzo venne compiuto un altro orrendo eccidio sempre dalla solita compagnia di nazisti guidata dal maggiore Walter Reder. Nel 1949, ed è davvero una rarità, a Perugia fu fatto un processo che condannò all’ergastolo per crimini atroci tredici italiani repubblichini della Xª MAS. I loro crimini nei confronti della gente di Vinca sono difficili da raccontare, perché si macchiarono di nefandezze inimmaginabili. In quel caso la presenza degli italiani non è affidata solo ai ricordi, ma è testimoniata da una carta e nessuno può metterla in discussione.

Lei ha scelto una scrittura d’inchiesta, legata a fatti realmente accaduti. Non le piacerebbe raccontare qualcosa che nasce dalla sua immaginazione? Francamente non è il mio mestiere, però per il mio libro ho dovuto usare anche l’immaginazione perché non è solo un saggio storico d’inchiesta, ma è anche un romanzo, nella misura in cui i personaggi del passato riprendono vita. Io li faccio parlare, agire, pensare e inevitabilmente questa parte l’ho affidata alla mia immaginazione. L’ho fatto cercando di rispettare il più possibile la verità storica, sapendo che quando si vanno a trasformare le persone in personaggi qualche licenza si prende e si rischia di non essere esattamente fedeli alla verità. Uscire dal saggio e dare emozione ai personaggi serviva a ridare loro pienamente quella umanità che era stata tolta dall’eccidio e con la negazione giuridica e storica di questa tragedia.

Il bene sembra un concetto non attuale. I buoni vengono visti come perdenti, deboli. E con i più deboli ce la si prende sempre. C’è un modo per ribaltare questo paradigma? Ricordandoci, grazie alla storia, quello che siamo riusciti a fare noi quando abbiamo fatto prevalere il bene. Penso al disastro che si sta consumando in Medio Oriente. Ho ascoltato un’intervista molto bella a Yuval Harari, un filosofo israeliano progressista, e tra le tante mi ha colpito una frase bellissima “nella storia sempre le ferite di ieri giustificano le ferite di oggi” e quindi non se ne esce mai. Il più debole viene sopraffatto sulla base di una giustificazione che proviene dal passato. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, dopo orrori inimmaginabili, noi italiani ed europei siamo riusciti non solo a costruire la pace, ma a costruire l’Unione Europea. Noi ci siamo gemellati con le città tedesche che ci avevano distrutto e questo significa che può prevalere un’idea di bene quando non usi più le ferite del passato per giustificare quelle del presente. Non succede quasi mai nella storia, forse quella è stata la prima volta e dimostra che l’essere umano è capace di orrori, ma è capace anche di far prevalere la ragione e anche il bene. È qualcosa che non ci dobbiamo dimenticare mai, non dobbiamo darlo per scontato, perché ci dimostra che è possibile.

Cosa rappresentano scrittura e letteratura per lei? Qual è il potere delle parole?

È straordinario, è un potere di pura creazione. Quando le usiamo e quando le riceviamo, le parole servono per creare mondi. Creano cose perché le cose esistono nel momento in cui le chiamiamo. Da sempre. Nella Bibbia, la prima cosa che fanno Adamo ed Eva è dare un nome alle piante, agli animali, e le fanno esistere. Avendo questo potere, le parole sono anche pericolose, usate male possono diventare distruttive. Nella letteratura, in genere, le parole servono per creare mondi che ci lasciano dei significati o che ridanno verità e dignità a cose che non l’hanno avuta. Storie intime, private, ma anche storie collettive, come nel caso di quella che ho scelto di raccontare. Pensare di avere a che fare con un materiale così potente come la parola che crea mondi, realtà, non soltanto sentimenti e immagini, è qualcosa di entusiasmante.

A quando il prossimo libro?

È stato molto bello scrivere questo e spero di avere di nuovo la forza necessaria. Scrivere è un’impresa, quando ho finito ho pensato “non ci credo che ce l’ho fatta” e spero che mi torni quella capacità.

 

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