Adamo ed Eva tra hybris e anànche

Dürer dovette concepire l’opera come espressione di due modelli di bellezza classica non disgiunti dal valore morale che il bello assunse nell’antichità
Loretta Secchi

Adamo ed Eva, o Peccato originale, è un’incisione realizzata da Albrecht Dürer nel 1504 ma nell’ideazione essa maturò in tempi lunghi, a cavallo dei due secoli che lo videro attivo in Germania e in Italia. L’artista, nativo di Norimberga, pervenne al recupero della teoria delle proporzioni, di matrice vitruviana, attraverso lo studio dei maestri italiani, ereditando una visione apollinea della classicità mai del tutto affrancata da un’impronta tardogotica. La postura di Adamo ricorda l’iconografia del Dio Aesculapius, ma se all’Apollo Medicus venivano attribuiti poteri curativi, per le facoltà taumaturgiche dell’arco e delle frecce, all’Adamo di derivazione apollinea si associa l’idea della serenità paradisiaca che precede la disobbedienza a Dio, determinando la corruzione del genere umano. Adamo è colto nell’istante che anticipa il peccato originale e dell’eroica bellezza virile del Dio Apollo custodisce l’anatomia, non più la proverbiale imperturbabilità. Il primo uomo tradisce una tensione che è quasi presagio di distruzione. Forse è lo stato di incosciente curiosità che lo spinge al peccato; lo sguardo rivolto ad Eva non tradisce esplicitamente il sospetto dell’errore, ma la mano destra afferra ancora il sorbo selvatico sul quale poggia il rassicurante pappagallo, associabile all’idea del verbo. Il ramo appartiene all’albero della vita e si contrappone alla presenza inquietante della pianta del male, segno della conoscenza irrefrenabile, sacrilega perché fine a se stessa. Su quest’ultima si avvolge il serpente, simbolo della tentazione e dell’invito ad oltrepassare i confini del lecito. Esiste un dualismo che interessa la tensione del rapporto tra Adamo ed Eva e genera una contrapposizione che ritorna nella coppia topo-felino, pappagallo-serpente. Emerge così la valenza negativa di Eva, idealmente assimilata al serpente e al felino, identificata con la tentazione, riproposta nei secoli, come emblema del disordine, della trasgressione, dell’abuso del libero arbitrio, secondo i dettami di una chiesa influenzata dai simboli funesti di una femminilità ormai macchiata dalla colpa.Adamo ed Eva o Peccato originale - Albrecht Dürer, 1504, incisione 25,2×x9,4 cm., Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe L’albero della discordia divide Adamo ed Eva, segnando una frattura tra il prima e il dopo, ovvero tra l’incontaminata vita paradisiaca e l’esistenza sofferta, conseguente il peccato originale. Come accennato, il ramoscello al quale Adamo si regge, quasi opponendo una resistenza passiva all’invito di Eva, rappresenta l’ultimo debole appiglio alla salvezza, prima dello sbilanciamento verso la pianta ingannevole, emblema del proibito, simbolo eloquente di ciò che non può essere violato e una volta scoperto danneggia l’umanità. Sullo sfondo, in precario equilibrio su una rupe, appare un capro, forse uno stambecco. In entrambi i casi si tratterebbe di un animale sacrificale solitario. Secondo la dottrina dei temperamenti l’uomo, allo stato primordiale, visse nell’equilibrio e nel bene finché fu estraneo a predominanti generate da uno dei quattro umori: melanconico, flemmatico, sanguigno e collerico, menzionati nell’antichità. Questi fluidi, dapprima equivalenti, in seguito alla conoscenza del peccato subirono un’alterazione e determinarono squilibri all’origine del male, della morte e del vizio. L’adesione di Dürer a questo principio è confermata non tanto dalla scelta del soggetto biblico bensì dalla presenza delle creature e degli accostamenti privilegiati dall’artista tedesco. Una teoria medievale, riabilitata e diffusa nel XVI secolo, afferma che alcuni animali incarnano i quattro umori che stanno alla base dell’equilibrio degli esseri. L’ipotesi che Dürer avesse considerato la dottrina scolastica sembra accreditata dalla presenza dell’alce, visto come emblema del temperamento melanconico, del gatto selvatico, pensato come espressione della crudeltà collerica, del coniglio, sempre accostato alla lussuria e infine del bue, avvicinato all’indolenza flemmatica. Dürer dovette concepire l’opera come espressione di due modelli di bellezza classica non disgiunti dal valore morale che il bello assunse nell’antichità. Adamo-Apollo riecheggia nel corpo e persino nella capigliatura gli eroi-guerrieri classici. Eva-Venere, nel volto risponde alle fisionomie nordico-rinascimentali ma per fattezze rimanda alla classicità. La scelta di un canone delle proporzioni proveniente dalla cultura classica corrisponde all’ideale di bellezza e proporzione espressa nella kalokagathià greca, ovvero nell’endiadi kalos kai agathos traducibile in bello e buono, unione di bellezza e virtù. La cristianizzazione di questo principio dà origine alla concezione medievale della pulchritudo, e la persistenza di quest’ultima nel pensiero rinascimentale si coniuga alle revisioni della classicità secondo il ben noto progetto dei rinascimentali: riabilitare la cultura classica, per ricalcarne i modelli morali oltre che formali. Adamo ed Eva, esseri che stanno per perdere la loro privilegiata serenità, agiscono in un libero arbitrio che è annebbiamento indotto dalla persuasione luciferina. La dicotomia che contraddistingue le coppie di animali intorno ad Adamo ed Eva rappresenta l’atavico desiderio dell’uomo: combattuto tra soddisfazione individualistica ed accettazione di un limite invalicabile. L’apparente armonia che domina la scena è solo un breve istante che precede l’errore e la tragedia della cacciata, condizione irreversibile per l’eternità. All’essere umano, cultore di modelli e progetti che violano i limiti imposti dall’etica e dalla natura, tocca il conflitto di chi, calato nella contingenza storica, politica e sociale, sceglie col presagio di un male annunciato, sconfitto nell’idea di un bene superiore. Ancor oggi, osservando questo soggetto iconografico, la riflessione va al peccato inteso come protervia, facendo di Adamo ed Eva figure chiave dell’ambivalenza della conoscenza; tra hybris ed anànche: sacrilegio e destino.

 

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