Il soggetto ipovedente,
per definizione, è una persona portatrice di un deficit visivo
irreversibile e non migliorabile con sistemi ottici convenzionali, di
entità tale da non consentire lo svolgimento delle comuni attività
della vita quotidiana.
In età evolutiva e scolare, la funzione visiva è strettamente
correlata all’evoluzione globale del bambino, nelle sue dimensioni
percettiva, psicomotoria, neuropsicovisiva tre componenti strettamente
integrate tra loro. In base a queste premesse, è evidente che un
grave difetto congenito o precoce in qualsiasi ambito funzionale non può
essere considerato “settoriale” ma interferisce inevitabilmente
con lo sviluppo di altre funzioni e sottofunzioni, coinvolgendo la sfera
operativa e la sfera psicologica e limitando, di conseguenza, la partecipazione
alla vita sociale.
Il trattamento riabilitativo deve quindi prevedere una sequenza di interventi
a livello sanitario, sociale, psicologico e ambientale. Si tratta, in
poche parole, di definire un percorso integrato implicante un’intima
connessione di strategie finalizzate ad ottimizzare tutte le risorse residue
dell’individuo, adeguare le caratteristiche ambientali sia strutturali
che sociali, nonché gestire le eventuali ripercussioni psicologiche.
La definizione e quantificazione delle abilità residue di un bambino
con handicap visivo richiede il più delle volte, un approccio plurispecialistico-multidisciplinare
per la stesura del progetto e del successivo programma riabilitativo;
per comprendere meglio la pura limitazione visiva si può generalmente
dire che il bambino vedrà poco e male con entrambi gli occhi, sia
da lontano che da vicino, anche con l’utilizzo degli occhiali, con
un’acutezza visiva pari al massimo al 30% o ad un’ampiezza
del campo visivo pari al 60% di quella dei coetanei: avrà quindi
grosse difficoltà nell’osservare immagini e scritte di piccole
dimensioni oppure nel muoversi ed orientarsi nello spazio.
Gli handicap sopra citati sono legati strettamente alla natura del deficit
visivo: possiamo avere alterazioni della visione centrale con conseguente
difficoltà nella lettura e nella visione dei dettagli delle immagini
oppure alterazioni della visione periferica per cui lo spazio viene percepito
in maniera ristretta, come attraverso un tubo, rendono così difficoltosa
la mobilità e l’individuazione degli oggetti nello spazio.
Affrontare questi problemi da un punto di vista tiflopedagogico-riabilitativo
significa attivare una stretta collaborazione tra la famiglia, la scuola,
ed i professionisti che si occupano della cura e della riabilitazione
della persona.
Delle molteplici e significative conseguenze sulla qualità dello
sviluppo globale del bambino che questi difetti possono innescare, ne
abbiamo già parlato in precedenza, ma forse qualche considerazione
e qualche esempio, tratti dall’esperienza pedagogica, possono risultare
ancora più convincenti.
L’apprendimento, l’osservazione, il confronto, l’associazione,
il movimento, in sintesi la significatività e la piacevolezza del
conoscere e dell’esprimersi e la stima di sé, rischiano di
dover fare i conti con le conseguenze del difetto senso-percettivo-visivo.
Non sempre tuttavia, questi rischi sono avvertiti nella loro portata,
né il bambino, d’altra parte, ci può aiutare più
di tanto, poiché la condizione visiva che vive gli appare “normale”,
perché è anche l’unica che conosce e anche perché
ha, probabilmente, già adottato comportamenti in qualche modo compensativi
del limite visivo. Ma sarà l’impegno scolastico ad offrire
nuovi e inevitabili termini di confronto e consapevolezza delle diverse
prestazioni possibili. Ne consegue che, a scuola, un bambino con difficoltà
nella visione da lontano rischia di vedere male la lavagna, e perciò
di imparare male, ma rischia anche di non poter fruire a pieno della valenza
educativa di cartelloni o alfabetieri posti in alto sulle pareti dell’aula,
o dei video didattici e di non poter interpretare prontamente il linguaggio
mimico-gestuale che sostiene la comunicazione orale dell’insegnante
e dei compagni. Altrettanto intuibili sono le conseguenze della difficoltà
nella visione da vicino: difficoltà nella lettura, nella scrittura
e nel disegno; tutto questo provoca maggior fatica durante l’applicazione
e perdita delle opportunità di rinforzo, verifica e gratificazione.
In tutti questi casi il “rendimento scolastico” risente della
gravità della minorazione; per raggiungere risultati adeguati alle
aspettative scolastiche, l’alunno deve sopportare uno sforzo pedagogico
molto più intenso di un compagno normovedente. Un’enorme
quantità e qualità d’informazione viene persa. Questa
deprivazione può ridurre il patrimonio di esperienze e competenze
con gravi rischi sull’apprendimento e può richiedere, per
essere compensata, l’attuazione di pazienti percorsi didattici.
In presenza di una grave limitazione del campo visivo anche il semplice
compito di individuare e congiungere due punti su un foglio diviene un’impresa
che richiede perseveranza e accortezza operativa.
Quando la visione è così parcellare l’intento di ricostruire
un contesto fotografico, un’immagine geografica o artistica, obbliga
ad un impegnativo lavorio di ordinamento dei frammenti percepiti e, solo
a fatica, si delinea una rappresentazione mentale sintetica dell’insieme.
A volte può coesistere un’alterazione della percezione cromatica:
un colore si può confondere con un altro, riducendo la capacità
di identificazione di un oggetto dallo sfondo; sulla carta geografica
fisica, le palline rosse delle città scompaiono tra le pianure
verdi, il Po azzurro con i suoi affluenti non si staglia più tra
valli e prealpi e alla fine del percorso la foce sulla costa adriatica
si confonde in un grigio simile al celeste del mare. La prima esemplificazione
alla lavagna dell’analisi logica con il soggetto scritto in verde,
il predicato in rosso e l’oggetto in blu, diventa un rebus di grigi
risolvibile solo prestando molta attenzione alle spiegazioni orali.
Alcune patologie possono provocare anomalie nell’adattamento alla
luce con sintomi quali la fotofobia e l’abbagliamento per cui il
bambino non riesce a sopportare un’illuminazione per altri gradevole
e, in aula, si ricorre all’utilizzo di tende alle finestre o di
posti più lontani dalle finestre; alterazioni della capacità
di adattamento al buio possono condurre ad un sintomo chiamato “emeralopia”
o ridotta visione al calare della luminosità: in classe gli altri
alunni, sembrano precipitare nel buio al ridursi dell’illuminazione
ambientale.
Il bambino giunge all’alfabetizzazione attraverso un percorso di
esperienze che inizia nei primi mesi di vita e si protrae nel tempo fino
all’inizio dell’apprendimento formale. Anche l’attività
grafica non spunta dal nulla all’età di sei anni, ma è
il risultato di un percorso di sviluppo cognitivo, psicologico e psicomotorio
che il bambino avvia ben prima che i segni scritti gli vengano presentati
per essere appresi. È fondamentale capire che l’apprendimento
non si identifica solo con quello che noi insegniamo, ma si fonda su idee
e conoscenze che il bambino si è costruito attraverso le attività
di gioco spontaneo, l’interazione con gli altri e l’ambiente.
Il percorso d’apprendimento non deve perciò essere standardizzato,
ma deve scaturire da quella particolare situazione specifica, scolastica
e no, e dalle risposte che di volta in volta emergono.
I sussidi vanno scelti non in base all’età cronologica o
alla classe che si frequenta, ma bisogna anche sottolineare l’importanza
di una scelta metodologica dettata da quelle che sono le personali potenzialità,
capacità, esigenze dell’alunno in quel momento e per quella
disciplina.
Importante è riuscire a lavorare col bambino per trovare quelli
che possono essere i dispositivi a lui utili adattando, modificando, adeguando
una procedura di uso comune e renderla efficace per uno solo.
Nelle varie situazioni di apprendimento è comunque da salvaguardare
la valenza emozionale, il senso piacevole di intrattenimento, il gusto
del fare, l’investimento gratuito di energie psichiche per uno scopo
mirato e ricercato.
Per quanto riguarda gli ausili per ipovedenti, ad eccezion fatta per situazioni
gravi, per cui è necessario procedere per gradi all’insegnamento
del Braille si utilizzano generalmente strumenti che sono legati all’ingrandimento
dei caratteri o all’elaborazione elettronica dell’immagine
quindi: libri di testo ingranditi e quaderni a righe marcate e distanziate
tra di loro, videoingranditori e software ingrandenti con sintesi vocale
per l’utilizzo di Personal Computer. Le trascrizioni dei testi o
di dispense in Braille o a caratteri ingranditi, vengono fatti da enti
preposti che forniscono alle scuole richiedenti i testi di cui hanno bisogno.
Alcuni dei materiali sono strumenti utilizzabili da tutta la classe; il
mappamondo ad es. può essere in rilievo, colorato (anche per ipovedenti
e per poter essere utilizzato dal resto della classe), viene letto bene
sia con le mani che con gli occhi, ha due legende in basso di indicazione
riguardanti i continenti e i mari fatte sia in Braille che in nero proprio
per far sì che possa essere strumento di integrazione anche fra
gli insegnanti di sostegno e curricolari e non solo fra gli alunni.
Per poter essere utilizzati anche dagli ipovedenti alcuni strumenti vengono
dotati di elementi con forte contrasto cromatico tra lo sfondo e lo scritto
o la figura che eventualmente è rappresentata.
Vi sono altri materiali in rilievo che fungono da tavole riassuntive di
diverse discipline riprodotte tutte al Thermoform (tecnica utilizzata
per rendere il disegno che si vuole rappresentare in rilievo).
La conoscenza concreta delle situazioni, degli oggetti, degli strumenti
e non soltanto la verbalizzazione delle esperienze che si fanno è
indispensabile per i minorati visivi per arrivare ad avere un’immagine
mentale della realtà circostante, una reale conoscenza di tutto
quello che imparano. Fondamentale è partire, quindi, dall’elemento
reale, concreto per arrivare gradualmente alla rappresentazione simbolica,
utilizzando tutti i materiali e gli strumenti che ci possono essere utili
per rappresentare un oggetto, per spiegare una disciplina e per rendere
la partecipazione dell’alunno il più possibile continua e
omogenea al resto della classe.
Anche per il disegno ci sono diversi strumenti, alcuni per la rappresentazione
bidimensionale dei primi oggetti conosciuti, altri si utilizzano per la
riproduzione di figure geometriche (piano in gomma, riga, squadra, compasso,
ecc.).
In conclusione riteniamo utile specificare che qualsiasi attività
pensata per il bambino deve partire dalla soggettività, altrimenti
si rischiano quelli che vengono chiamati accanimenti “qualitativi”
e “quantitativi”: qualitativi quando si impongono obiettivi
funzionali previsti da un protocollo standard non personalizzato; quantitativi,
quando vengono prorogati indefinitamente i tempi di lavoro, nell’illusione
di poter raggiungere un obiettivo non calibrato sulle potenzialità
del bambino. Tutti i sussidi didattici siano essi per non vedenti che
ipovedenti, vanno considerati come strumenti il cui valore dipende dalla
capacità degli operatori di saperli indicare e utilizzare nel contesto
di un progetto riabilitativo globale.
Bibliografia:
Cannao M.1989, “Ipovisione.
I problemi dell’età evolutiva”, in “Saggi”,
anno XIV, numero monografico.
Cannao M., 1999. “La mente con gli occhiali”, Milano, Angeli
Colombo E., “Disturbi visivi complessi e didattica specializzata”,
1984, Saggi. Delpino E., Gallo G., Gettani A., Pieri P. “Giocando
s’impara. L’apprendimento della scrittura nell’ipovisione”.
1999, Istituto David Chiassone – Genova. Grassi N. “Elementi
di tiflodidattica. Giornale di ipovisione”. Professional Optometry.
Vigneux F.
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