Le ragazze del Cavazza

di Pupi Avati

Il racconto all’origine del film “Un cuore altrove”.

Mia madre è nata in via degli Angeli, a poche decine di metri da Porta Castiglione e ha quindi vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza in prossimità dell’Istituto Cavazza. Delle ospiti di quella nobile istituzione aveva un ricordo bello e fantasioso che si rifaceva ad una domenica d’autunno ad un anno dall’inizio della seconda guerra mondiale.
Fu in quella domenica, che nella Chiesa di Porta Castiglione quattordici donne nubili e non vedenti dell’Istituto si sposarono con bolognesi vedenti.
Tutte le ragazze cieche raggiunsero la chiesa a piedi, nei loro abiti bianchi e lunghi, tenendosi per mano, e precedute da una monaca vedente che fungeva da battistrada, nella curiosità grande dei passanti.Foto - Primo piano di Pupi Avati
Ridevano le ragazze che andavano a sposarsi, minacciandosi l’un l’altra scherzi, il più tremendo dei quali consisteva nello scambio (d’altra parte non impossibile) dello sposo. Ridevano anche i quattordici mariti che erano ad attenderle con la camicia bianca, in fila sul piazzale della chiesa, schierati alle spalle della banda dell’Arsenale che eseguiva arie operistiche.
Così, in quella mattina di ottobre si sposarono tutte le donne cieche che nella primavera e nell’estate precedenti avevano trovato un moroso. Si sposarono la Bulgarelli, la Wanda, la Bragalini, la Gianna, la Melega, la Comaschi, la Rita senza brufoli (quella coi brufoli non si sarebbe sposata mai), la Tania, quella di Pistoia che stava sempre zitta e quella di Castelfranco che sapeva suonare il valzer con la foglia di sambuco.
I loro morosi erano uomini di spalle larghe o strette, che non avevano saputo trovare una sposa vedente pur avendola cercata molto, oppure erano uomini di bassa statura o di alta statura che l’avevano trovata ma che gli era morta o se ne era andata chissà dove e con chissà chi senza lasciare neanche un doveroso biglietto. Insomma erano tutti uomini, grassi o magri, interamente liberi di fronte alla società o alla Santissima Chiesa.Foto - Pupi Avati sul set
Per lo più erano uomini che le donne vedenti avevano rifiutato per il loro aspetto, per la loro età o, nella maggior parte dei casi, per la loro eccessiva riservatezza nel dichiarare il loro amore a una che li guardava.
Così i responsabili dell’Istituto avevano assunto le necessarie informazioni sul loro stato civile, sulla loro moralità, sull’assenza di tare genetiche e sulla certezza di un’occupazione che garantisse sostentamento dignitoso alla nuova coppia.
Fu una cerimonia magnifica e che tutti si aspettavano commovente, ma che non lo fu neppure quando ad una ad una, le ragazze non vedenti dissero il loro “sì” promettendo il loro eterno amore ad uomini dei quali avrebbero saputo solo immaginare l’aspetto.
Fu una cerimonia che divenne più grande quando spaziò nel giardino dietro la chiesa, dove tutti gli sposi e i loro invitati presero posto attorno ad una lunga tavola, e venne servito il riso al ragù e la cotoletta di pesce. Menù che il parroco definì inadeguato alla solennità della cerimonia, irritato anche dalla torta nuziale coperta di alkermes nella quale ogni coppia, a turno, immerse il coltello, per il taglio della prima fetta, sfracellandola.
Al momento del brindisi la Marcelli, che era la più colta, declamò i versi del Vate, “amore in mezzo a questo ballo stia:
e chi gli è servo, intorno.
E se qualcuno ha sospetto o gelosia, non faccia qui soggiorno…” versi il cui senso sfuggì alla totalità dei presenti fatta eccezione per il parroco, che li definì assolutamente fuori luogo. Della sorte di quei matrimoni mia madre sapeva poco.
L’unica certezza che molti di quei sorridenti sposi, dopo poche mesate, si sarebbero trovati in divisa a combattere il più sanguinoso conflitto che memoria d’uomo sappia rammentare.