Maria Chiara Mazzi
Vogliamo iniziare, con questo numero, un cammino, che siamo certi ci riserverà
delle sorprese, nelle radici dell’Istituzione Cavazza e nella storia
di coloro che l’hanno resa grande: ed è inevitabile che il nostro
viaggio cominci proprio dal fondatore, il conte Francesco Cavazza, nato l’8
settembre 1860 e morto il 15 novembre 1942. Entrare nel mondo in cui egli visse
e operò
significa entrare nello spirito straordinario di quella Bologna che sta tra
gli ultimi trent’anni dell’Ottocento e arriva, all’incirca, alla
Prima Guerra Mondiale. Certo, Cavazza non muore nell’anno di Vittorio Veneto,
ma ciò che di significativo soprattutto segna la sua vita, accade proprio
in un quarantennio che inizia negli anni Ottanta. È, quella in cui vive
Francesco Cavazza, una Bologna in fermento che vuole ribadire, in campo nazionale
ed internazionale, la propria presenza storica attraverso la cultura, la rielaborazione
e il recupero di grandiose tradizioni, portando anche uno sguardo attento e
curioso alle tendenze più innovative, all’ultima moda, fosse essa
artistica o scientifica. È una città di circoli culturali e di
gruppi di amici che si riuniscono mossi da un ideale comune, che mescolano arti
e scienza, che pubblicano riviste per diffondere il loro pensiero. Sono gli
anni dell’infatuazione wagneriana e della passione per la musica sinfonica
che distingue Bologna nel panorama musicale italiano; ma sono anche gli anni
della grande Esposizione Universale promossa per celebrare l’VIII Centenario
dell’Università, in un connubio di passato e di p
resente
di cui poi saranno testimonianza l’opera di ricostruzione architettonica
di Rubbiani e quella di studio di Bologna Storica e Artistica. Ci si chiederà,
adesso, perché ad un medaglione dedicato a Francesco Cavazza abbiamo
anteposto una premessa così ampia. La risposta è molto semplice:
perché questa non è una premessa. Il conte Francesco era tra questi
giovani, casa Cavazza era il cenacolo in cui ci si trovava per discutere e fare
nuova Bologna. Ma non solo: Cavazza sarà tra i caldeggiatori del Comitato
per Bologna Storica e Artistica, fondato nel 1899 e di cui sarà presidente.
È tra i patrocinatori del Collegio Artistico Venturoli, vedendo nell’arte
non solo un mestiere, ma il modo di mantenere alto il livello culturale della
propria città. È tra i riesumatori dell’Accademia Clementina,
di origini settecentesche, ma che era andata piano piano spegnendosi, e nella
cui rivitalizzazione non si può non scorgere quello spirito di riscossa
che in quello scorcio di secolo animava l’intellighenzia della città.
Da questi pochi dati non sembrerà più un caso che proprio dallo
spirito di iniziativa di un gruppo di giovani (Cavazza, nel 1881, era poco più
che diciottenne) nascesse l’idea di una nuova, e modernissima, concezione
di beneficenza, quella che diede vita in quell’anno all’Istituto dei
Ciechi (oltre che, poi, a patrocinare l’Asilo Primodì per orfani).
Il punto di partenza, in part
icolare
per quello che riguarda l’Istituto che ancora oggi porta il suo nome, era
nuovissimo e non partiva da una comune concezione assistenzialistica, né
da un moto di pietà verso i ciechi, ma dal desiderio di ridare dignità,
attraverso l’istruzione e l’avviamento al lavoro, a persone che fino
a quel momento la società aveva emarginato come inutili e aveva relegato
sui gradini delle chiese. Una intuizione avveniristica per quei tempi, nella
quale la beneficenza fatta per tacitare la coscienza diventa invece un impegno
personale diretto ad elevare realmente la condizione dei beneficiati. Francesco
Cavazza è, da questo punto di vista, un uomo nuovo, che si impegna in
prima persona e, come tale, non potrà non fare anche politica nella propria
città (assessore comunale e consigliere provinciale) e per la propria
città (deputato). E, assieme alla moglie organizzerà poi un Ufficio
per Notizie alle famiglie dei militari nel corso della Prima Guerra Mondiale
che arrivò, nei giorni più duri del conflitto, ad essere un vero
e proprio punto di riferimento nazionale ed internazionale. A Bologna, a Casa
Cavazza. Ma tutto questo, a questo punto della storia, non ci stupisce più.