primo
Olivetti P101, quando gli italiani erano Steve Jobs
Art. postato da AngelaDelicata su uic h.e., 09\02\2014, h. 09.42.

Il primo computer da tavolo è stato il Programma 101 dell’Olivetti, nel
1964. Concepito a Ivrea dall’ingegner Perotto, ne esportammo negli Stati
Uniti quarantamila in un solo anno. Gli americani provarono anche a
copiarlo. E lo fecero. Ma la Hewlett Packard perse la causa e fu
costretta a pagare 900.000 dollari di risarcimento. Oltre che
intelligente era bello, un totem in grado di scatenare il piacere di
possederlo. Il vestito era stato disegnato da un designer, Mario
Bellini, che a Linkiesta ha raccontato quel tempo eroico e una
telefonata ricevuta anni dopo. Era un certo Steve Jobs e lo chiamava a
lavorare alla Apple. Ma lui dovette dire no.

Alessandro Marzo MagnoARTICOLO DI
Alessandro Marzo Magno

UN AMICO
Aveva un nome, Programma 101, un soprannome, “Perottina”, e un destino:
diventare il primo computer da tavolo del mondo. Perottina era stata
realizzata partendo da un modello in plastilina (non essendoci i
personal computer non c’erano neanche i rendering). L’aveva concepita un
ingegnere dell’Olivetti, Pier Giorgio Perotto, e aveva la forma datale
da un designer, Mario Bellini, destinato a diventare una delle stelle
del settore. Nell’anno di grazia 1965 vede la luce il primo desktop
della storia. Viene presentato negli Stati Uniti, in una fiera
specializzata, e il New York Times si esprime in termini più che
lusinghieri. Il 15 ottobre 1965 il quotidiano americano dà conto
dell’arrivo sul mercato di due macchine che chiama «calcolatori da
tavolo»: una della Victor Comptometer e una, per l’appunto,
dell’Olivetti. Questa seconda è definita «più costosa, ma in grado di
svolgere più funzioni». «La Programma 101», continua il giornale, «come
un computer può automaticamente far girare programmi in grado di
svolgere una serie di operazioni aritmetiche. Può anche conservare e
ricordare questi programmi, sia al proprio interno, sia all’esterno, e
attraverso di loro può prendere semplici decisioni logiche». E poi
ancora: «Le sue numerose funzioni ne consentono un utilizzo sia
scientifico, sia per business». Il costo di questa meraviglia
tecnologica era di 3.200 dollari Usa, pari a circa 17.000 euro di oggi
ma, nonostante il prezzo, nel 1966 il mercato statunitense ne assorbe
oltre 40.000 pezzi.

Fino ad allora quelli che in Italia venivano chiamati “cervelli
elettronici” erano enormi impianti che dovevano essere utilizzati da
personale specializzato. La novità rivoluzionaria della Programma 101 è
che sta su un tavolo e può essere usata da chiunque per effettuare
operazioni complicate, per esempio il calcolo degli stipendi. Ma intanto
succede che la statunitense Hewlett Packard ne compra un centinaio di
esemplari, li copia e li immette sul mercato. L’Olivetti le fa causa,
accusandola di violare il brevetto, e vince pure. L’Hp è condannata a
versare un risarcimento di 900.000 dollari Usa alla società di Ivrea, ma
alla sconfitta in tribunale corrisponde una vittoria sul mercato che
vedrà trionfare gli americani e soccombere gli italiani (la vicenda è
narrata in un documentario dal titolo Quando Olivetti inventò il Pc,
andato in onda in giugno su Sky).

Il papà del primo computer da tavolo è un ingegnere torinese, nato nel
1930, laureato al Politecnico della sua città e morto a Genova nel 2002.
Pier Giorgio Perotto entra alla Fiat nel 1955 e proprio lì comincia a
interessarsi di computer. Un paio d’anni dopo passa all’Olivetti, e nel
1962 comincia a lavorare al progetto di una macchina per elaborare dati
che sia piccola a sufficienza per stare in ogni ufficio e anche
programmabile, dotata di memoria, flessibile e semplice da usare.

Nel frattempo, però, l’Olivetti subisce importanti modifiche societarie:
disinveste nell’elettronica e cede il 75 per cento della divisione,
assieme a tutto il personale, alla General Electric. Perotto invece no:
rimane a Ivrea col suo piccolo gruppo e continua a lavorare al progetto;
nel 1964 il prototipo della Programma 101 è pronto.
Mario Bellini, il designer che le dette la forma, se lo ricorda bene
quando fu incaricato di “vestire” l’apparecchio. «Avevo cominciato da
poco a collaborare con l’Olivetti, nel 1963», racconta, «e avevo già
realizzato una macchina che aveva vinto il Compasso d’oro. Sono stato
chiamato una domenica da Roberto Olivetti nella sua casa milanese di
Foro Bonaparte. C’erano lui e l’ingegner Perotto, avevano in mano un
primo tentativo di corpo del quale però non erano soddisfatti. Olivetti
mi ha chiesto se sarei stato contento di occuparmi della cosa e io gli
ho detto di sì. Andavo a Ivrea, in alcuni locali che mi avevano messo a
disposizione. Lavoravo a questa macchina che non doveva essere a
colonna, innalzandosi da terra, come il primo prototipo. La grande
intuizione che avevano avuto Olivetti e Perotto era che dovesse essere
una macchina da tavolo. Ho cominciato a lavorarci e l’ho fatta diventare
una macchina da tavolo».

Doveva «addomesticare il mostro», come dice oggi l’architetto, e
descrive come ha concepito il nuovo oggetto: «Sul retro c’era un
cassettone di schede stampate con i transistor – al tempo non esistevano
ancora i microchip – la parte anteriore era quella che si metteva in
comunicazione con l’operatore. A sinistra ho messo i tasti e sulla
destra uno spazio specifico in cui si infilava la scheda. Sopra c’era
una parte che saliva, con le spie luminose che indicavano quando era in
funzione. Se fosse stato un animale, quella sarebbe stata la testa.
Sulla parte anteriore, in continuità con la tastiera c’era una specie di
becco, in modo da permettere di appoggiare il palmo della mano e usare
le dita per digitare. Abbiamo realizzato un modello al vero di
plastilina, mettendoci sopra ogni sera uno straccio umido perché non si
seccasse; poi un modello in legno, con i tasti e lo abbiamo presentato a
Olivetti e Perotto che ne sono rimasti molto soddisfatti».

Eccolo qua, il primo desktop del mondo, frutto del sapere e del genio
italiani, della collaborazione tra un ingegnere e un architetto.
Oltreoceano qualcun altro si rende conto che quella novità è dirompente.
Passa qualche anno e Mario Bellini riceve una telefonata. Dall’altro
capo del filo c’è un ancor giovane e non molto conosciuto Steve Jobs.
«Ho ricevuto una telefonata personale di Jobs», racconta l’architetto,
«che mi chiedeva se volevo disegnare per loro. Gli ho risposto che avevo
un contratto di consulenza esclusiva con Olivetti e pertanto non potevo
collaborare con lui». Rimpianti? Una grande occasione mancata? «Ho
vissuto ancora altri 15 anni di straordinarie avventure. Olivetti aveva
un prestigio immenso, era invidiata anche da Ibm».
E secondo Bellini tra Apple e Olivetti c’è una relazione stretta. Jobs,
come prima la casa di Ivrea, hanno creato «totem in grado di scatenare
il piacere di possederli». Apple è «l’erede più fortunato di Olivetti:
hanno costruito cose analoghe, ma Jobs lo ha fatto negli Usa e non in
Italia», conclude Mario Bellini, «e questa è la differenza».
Fonte: www.linkiesta.it/olivetti-steve-jobs
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