protesi
Sanità, lo scandalo dei prezzi di protesi e ausili. Quando lo Stato paga più del privato
Il Fatto Quotidiano del 18-07-2013

di Antonio Massari e David Perluigi
montaggio Gisella Ruccia

Il "Nomenclatore tariffario" è la lista del ministero della Salute che regolamenta prezzi e 
tipologie di protesi e ausili per disabili. Un settore che costa allo Stato 1,9 miliardi di euro in 
un anno. Una prontuario provvisorio, nato nel 1999, e mai aggiornato. Risultato? Le Asl spendono 
anche il triplo rispetto al reale valore in commercio. Una riforma bloccata anche dalle lobby in 
Parlamento. Vi sveliamo gli enormi interessi, le truffe, il mercato nero, e i disservizi sulla 
pelle dei malati. Ecco la prima inchiesta realizzata su richiesta dei nostri utenti sostenitori

Disagi e frustrazioni per gli utenti. Truffe e spreco di denaro pubblico. Distorsione del mercato. 
Mortificazione della ricerca tecnologica. Crisi delle aziende fino alla cassa integrazione o al 
fallimento. Può sembrare incredibile: questa lunga serie di costi sociali nasce da un volumetto. 
Potete trovarlo in qualsiasi negozio di articoli sanitari ed elettromedicali. Parliamo del 
‘Nomenclatore tariffario per protesi e ausili’: centinaia di pagine, una lunga lista di codici e 
prezzi, insomma un prontuario. Questo prontuario elenca quali strumenti – dalle carrozzine, alle 
stampelle, passando per ginocchi artificiali e protesi di ogni tipo – ciascun disabile può (e deve) 
ottenere gratuitamente dallo Stato. Siamo quindi all’interno dei Lea – Livelli essenziali di 
assistenza – e cioè i servizi e le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale eroga gratis o 
con il pagamento di un ticket. I Lea sono il cuore pulsante del nostro sistema sanitario. E questo 
“prontuario” è il sintomo del suo infarto.

Uno scandalo lungo 14 anni.

Dietro questo “listino” di protesi e ausili, infatti, si stratifica una drammatica serie di 
anomalie e soprusi. Partiamo dall’anomalia principale: il ‘Nomenclatore tariffario per le protesi’ 
è stato varato nel 1999. C’era l’allora ministro della Sanità, Rosi Bindi (centrosinistra). Doveva 
essere un elenco provvisorio: è vigente da 14 anni. Non è mai stato aggiornato.
La legge prevede un aggiornamento ogni due anni. Il motivo è semplice: la tecnologia avanza, 
migliora la qualità di protesi e ausili, quindi è necessario che il “prontuario” sia adeguato ai 
tempi, per fornire ai disabili le migliori condizioni possibili. Non solo. Cambia la tecnologia, 
mutano anche i prezzi, che in alcuni casi diminuiscono e in altri aumentano: l’aggiornamento del 
prontuario – va da sé – è indispensabile anche per il mercato: sia per i fornitori che vendono, sia 
per il servizio pubblico che acquista, sia per gli imprenditori che producono. E invece niente: da 
14 anni, i prezzi sono rimasti sostanzialmente gli stessi. E vedremo quali danni ha prodotto, 
quest’inerzia, nell’economia.

Una truffa legalizzata.

Seconda anomalia: il suo funzionamento. Il nomenclatore prevede solo codici e caratteristiche. 
Vediamo come funziona: se ho bisogno di una carrozzina, la legge prevede che lo Stato me ne 
fornisca una. È una spesa pubblica: non devo pagare. Mi presento dal rivenditore e, dal prontuario, 
scelgo il modello “x”: se ha le caratteristiche previste per il mio caso, la prendo, e il servizio 
sanitario paga per me. Il rivenditore cosa fa? Addebita il costo al Servizio sanitario nazionale. 
Ma in che modo? Attenzione: non segnala il modello e la marca della carrozzina che ho appena 
comprato. No. Segnala il codice e il prezzo segnato sul prontuario. Un codice generico. Una cifra 
precisa. Una cifra che, però, non è legata alla carrozzina che io ho acquistato, ma al codice 
presente sul prontuario. Non importa quale modello io abbia preso. Non importa quanto costi 
effettivamente al rivenditore, come dimostra il video de ilfattoquotidiano.it. Importa solo che la 
carrozzina corrisponda a quel codice. Ed ecco il risultato: molte carrozzine pieghevoli, 
corrispondenti allo stesso codice, nel 1999 erano valutate con una tariffa di circa 420 euro, ma 
oggi costano appena 158 euro. Se le compra un privato, il negozio di articoli sanitari, le vende a 
158 euro. Se le compra la Asl, invece, paga 420 euro. Alla carrozzina aggiungiamo il montascale: 
alla Asl costa 3.718 euro, se lo acquisto in negozio, però, lo pago 2.500 euro.
L’aggiornamento del tariffario, per il comparto di massa, quello che comprende carrozzine e 
montascale, consentirebbe un risparmio enorme: “Un ribasso del 70 per cento per molti ausili”, dice 
Maria Teresa Agati, presidente autorevole del Centro studi e ricerca per persone disabili di 
Federvarie – Confindustria. Insomma: uno spreco. Anzi: una sorta di truffa legalizzata. E a 
legalizzarla è la norma. O meglio: il suo mancato aggiornamento. Eppure, di occasioni, ne abbiamo 
avute.

Il gioco dell’oca.

L’ultima occasione è sfumata appena due settimane fa: il 31 maggio. Il decreto dell’ex ministro 
della Salute, Renato Balduzzi, approvato nell’ottobre 2012, adeguava il nomenclatore, che andava 
aggiornato entro il 31 maggio. Il nuovo governo ha ignorato la scadenza. E tutto resta come prima. 
Come vedremo, non è la prima volta, anzi: questa è la terza anomalia. Un decreto analogo fu emanato 
nel 2008 dall’ex ministro Livia Turco (Pd): fu approvato e mai applicato. Peggio: “Fu revocato dal 
governo Berlusconi”, dice la Turco a ilfattoquotidiano.it.
La vera anomalia, però, sta in questa sorta d’incantesimo: il decreto che aggiorna il nomenclatore 
tariffario, come per destino, viene emanato sempre a fine legislatura. È come se il governo in 
carica lo scaricasse su quello successivo. Che puntualmente lo ignora. Lasciando tutto come prima. 
È accaduto con il decreto Turco. È accaduto con il decreto Balduzzi. E in questo gioco dell’oca, in 
realtà, la pedina resta sempre ferma al punto di partenza: il 1999. E la pedina, in questo caso, 
purtroppo è un disabile.

“Stato d’illegalità”.

Se un disabile ha bisogno di una protesi, mettiamo per l’amputazione di una gamba, il Servizio 
sanitario nazionale gli fornisce un codice che è stato previsto nel 1999 e mai più aggiornato. A 
quel codice corrisponde una tecnologia altrettanto obsoleta. Quel tipo di protesi, con materiali 
magari più pesanti, o componenti superate, potrebbe persino non essere più in commercio. “Il nuovo 
nomenclatore – dice Maria Antonietta Farina Coscioni, già deputata radicale e presidente onorario 
dell’associazione Luca Coscioni – avrebbe dovuto eliminare le protesi “vecchie”, quelle 
tecnologicamente obsolete, per sostituirle con quelle nuove e adeguate. Ma ci hanno illusi ancora 
una volta. Ci troviamo in uno stato d’illegalità: il decreto Balduzzi è stato già convertito in 
legge, teoricamente è in vigore, ma nei fatti, i malati che ricorrono ai Lea e al nomenclatore, 
devono ancora rifarsi al 1999”.

Autonomia, indipendenza, relazione.

Il 1999 è anche l’anno in cui, per la prima volta, l’Italia tenta un censimento della disabilità 
nel Paese. Un censimento molto difficile da realizzare, come sottolinea lo stesso Istat, il cui 
ultimo studio risale al 2005. L’Istat spiega che è preferibile abbandonare l’ipotesi di un vero e 
proprio censimento: meglio unire “varie fonti informative”.

Quanti sono i disabili in Italia? Ma soprattutto: chi è il disabile?

Il disabile è una persona che presenta gravi difficoltà nel movimento, nelle funzioni quotidiane e 
nella comunicazione, sia con la vista, sia con l’udito, sia con la parola. L’Organizzazione 
mondiale della Sanità – nel 2001 – ha precisato che la disabilità è “la conseguenza o il risultato 
di una complessa relazione”: quella tra la “condizione di salute di un individuo” e “i fattori 
personali e ambientali in cui vive”. Il solo esempio del nomenclatore tariffario dimostra in quali 
condizioni ambientali, in Italia, sia costretto a vivere un disabile e il suo nucleo familiare. “La 
figura del disabile – dice Farina Coscioni – è vista come una figura da assistere. Non si comprende 
che si tratta d’una menomazione fisica, ma non psichica: gli ausili giusti consentono di vivere 
autonomamente. Consentono un processo di vita indipendente”.
Gli ausili giusti, però, sono sempre più spesso a spese del disabile. Quelli obsoleti – a patto di 
trovarli ancora in commercio – sono invece forniti dal Servizio sanitario nazionale. Risultato: una 
frustrazione diffusa. Che riguarda milioni di persone. Il 12 giugno, famiglie e malati si sono 
presentati per l’ennesimo sit-in davanti al ministero dell’Economia a Roma. “Vogliamo sapere dove 
sono i fondi promessi per l’assistenza – spiegano dall’associazione 16 novembre – e vogliamo capire 
quanto dobbiamo essere ancora presi in giro sul nomenclatore tariffario”.

Una comunità di 6 milioni di persone.

Le persone con disabilità in Italia, nel 2004, erano due milioni e 600 mila: il 4,8 per cento della 
popolazione. Oggi – secondo il sito della Regione Liguria – siamo giunti a 2 milioni 824 mila 
persone: 960 mila uomini, 1 milione 864 mila donne. Una stima al ribasso: riguarda soltanto chi 
soffre, per almeno una funzione essenziale della vita quotidiana, la totale mancanza di autonomia. 
Se dalla “totale mancanza di autonomia”, passiamo a “un’apprezzabile difficoltà”, la comunità dei 
disabili sale a 6 milioni 980mila persone: il 13% della popolazione. A queste cifre bisogna 
aggiungere le difficoltà che coinvolgono i loro nuclei familiari. E il dato diventa evidente: il 
mancato aggiornamento del nomenclatore tariffario è un’ingiustizia che tocca una larga fetta della 
popolazione. Una fetta molto debole, però, visto che quasi la metà ha più di ottant’anni. Passiamo 
ai bambini: circa 130mila in età scolare, 78mila nella scuola primaria, 61mila nella scuola 
secondaria. Tra il 12 e il 20 per cento di questi studenti non è autonomo nel muoversi all’interno 
dell’edificio scolastico, nel mangiare, nel recarsi al bagno da solo. Ogni ausilio, ogni protesi, è 
necessario a crescere e inserirsi nella vita sociale. Milioni di utenti, migliaia di imprese, 
decine di migliaia di dipendenti: siamo dinanzi a un giro d’affari milionario.

Un affare da 1,9 mld di euro (pubblici).

L’ex ministro Balduzzi, in carica fino a pochi mesi fa, ha quantificato in circa 1,9 miliardi 
l’attuale spesa pubblica in protesi e ausili. L’ex senatore Giuseppe Caforio (Idv), imprenditore 
pugliese del ramo protesi e ausili e per anni presidente della Fioto (federazione italiana 
operatori tecnica ortopedica), racconta che – solo nel ramo delle protesi ortopediche – esistono un 
migliaio di aziende. Circa duecento, aggiunge, sono in grado di produrre o assemblare protesi, 
mentre le altre si limitano alla vendita. L’ammontare effettivo dell’affare protesi e ausili, però, 
nessuno è in grado di quantificarlo con certezza. “Nessuno sa quanto spende lo Stato per la 
protesica”, spiega Agati. “Questa stima non esiste – conclude – perché sono dati gestiti 
separatamente dalle Asl regionali”. Le Asl in Italia sono centinaia e ciascuna di esse elenca 
decine di fornitori: una giungla inestricabile. In questa giungla il disabile si muove con il 
nomenclatore in mano: cerca la soluzione migliore che lo Stato può offrirgli. Una soluzione vecchia 
di 14 anni. Ed è proprio in questa giungla, dove l’unica bussola è il nomenclatore tariffario, che 
si annidano i disservizi, gli sprechi, e le truffe.

Tre ginocchi e una gamba.

“Partiamo da una premessa – dice Caforio – i prezzi risalgono al 1999 e, di fatto, è come se 
ragionassimo ancora in lire. È aumentato il costo del lavoro, delle materie prime, dei singoli 
componenti delle protesi: dal 1999 a oggi, nel mio settore, le spese sono aumentate mentre i 
guadagni, quando ci paga il servizio pubblico, sono rimasti gli stessi. E quindi è come se lo Stato 
ci dicesse: se vuoi che la tua azienda resti in piedi, devi truffare”. E il nomenclatore, tra le 
sue pieghe, nasconde tanti modi per truffare. “Non è il mio caso – continua l’ex senatore – ma c’è 
chi, per sopravvivere o perché è disonesto, a volte truffa”. In che modo? “Semplice. Si stila un 
preventivo: c’è il codice che prevede la protesi “x”, alla quale, perché sia funzionale, è 
necessario aggiungere altri componenti. Immaginiamo che la protesi “x” sia quella standard. 
Immaginiamo che sia rigida: invece serve che sia pieghevole. Bisogna montare un’articolazione del 
ginocchio: può costare dai 200 ai 30mila euro. C’è chi ha preventivato, per la stessa protesi, ben 
3 ginocchi”. Pagati dallo Stato. “ed è chiaro che, in una protesi, ci va un ginocchio solo”.
Alle truffe, agli sprechi e ai disservizi, bisogna aggiungere le “bizzarrie” del mercato. Il caso 
delle protesi acustiche è esemplare.

Quando l’Antitrust è sorda.

Un sordo italiano, per sentirci meglio, paga il doppio di un sordo tedesco. Lo studio è stato 
realizzato dall’associazione Luca Coscioni – per la precisione da Alessia Turchi – che confrontando 
i prezzi del modello Extreme, marca Bernafon, ha fatto un’interessante scoperta: in Germania costa 
tra i 1.210 e i 1.510 euro, in Italia costa 2.300 euro. Il modello Sparx dell’azienda GNResound in 
Germania costa tra i 680 e gli 880 euro, in Italia ben 4.750 euro. Sei volte tanto. Due anni fa, 
l’associazione Luca Coscioni, dopo una serie di interrogazioni parlamentari firmate dall’ex 
deputato radicale Marco Cappato, presentò un esposto al nostro Antitrust. Pratica archiviata. 
L’Antitrust non ha riscontrato alcuna irregolarità. Scrive l’associazione Luca Coscioni che “in 
Italia sono presenti quasi 60.000 sordi e 11.600.000 anziani over 65” e per loro, il rimborso 
fornito dalla Asl, in caso di sordità grave, è di appena “700 euro per protesi”. Il resto della 
cifra, insomma, bisogna sborsarlo da sé. Chi non può permettersi le protesi acustiche più avanzate, 
con prezzi persino superiori al resto d’Europa, dovrà accontentarsi di modelli meno efficienti. E 
questo vale per chiunque. E per qualsiasi protesi.

Di tasca propria.

“Chi non può permettersi l’ausilio giusto – dice Farina Coscioni – non può vivere una vita 
dignitosa”. Suo marito Luca è stato tra i leader dei Radicali, morto a 39 anni a causa della Sla. 
“Luca poteva parlare solo attraverso un apparecchio di sintesi vocale: l’ha pagata di tasca 
propria. La sua carrozzina – volevamo gli permettesse un movimento più corretto o entrasse in spazi 
più ridotti – non era prevista dal nomenclatore: anche in quel caso, la differenza, è stata a 
carico del disabile. E ancora oggi le sintesi vocali non sono per tutti. C’è stato un provvedimento 
ad hoc, dell’ex ministro Livia Turco, ma tutti i ministri arrivati dopo ci hanno illusi: sono 
intervenuti con micro provvedimenti. Il risultato è che il disabile non è integrato”.
Le tasche dei disabili sono spesso vuote: le pensioni d’invalidità civile – fonte Inail – variano 
dai 196 ai 495 euro al mese, con la punta di 846 euro per l’accompagnamento, nel caso dei ciechi 
assoluti. Bastano queste cifre a descrivere la discriminazione tra un disabile povero e uno più 
ricco.
Guido Furlanetto ha 43 anni, trevigiano, vive con una protesi da quando, circa trent’anni fa, gli 
hanno amputato un piede. Non ha problemi economici, per sua fortuna, e ci spiega come si organizza 
e come funziona il mercato: “La protesi per il mio piede costa 2.600 euro. Il suo costo di 
produzione, invece, si aggira intorno ai 200 euro”. Lo Stato quanto lo rimborsa? “Per un caso come 
il mio, lo Stato eroga 2400 euro ogni 4 anni, ma ci sono pezzi che vanno aggiunti sulla protesi, 
per esempio una specie di guaina, che ha un costo di produzione di 80 euro e io pago 800/900 euro. 
In media, per migliorare la qualità della mia vita, spendo dai 12 ai 15mila euro l’anno. Ormai non 
passo neanche più dalla Asl”.
Guido può permetterselo. Altri no. E comunque resta un fatto: la qualità si paga di tasca propria. 
C’è poi una terza via: una sorta di mercato nero.

Il mercato nero.

“C’è un mercato clandestino – dice Furlanetto – dove una protesi da 20mila euro la trovi a 8mila: è 
gestito soprattutto a Napoli”. Ed ecco come funziona. “La legge prevede che acquisti la protesi in 
una sanitaria o un istituto ortopedico: non hai alternativa. Al mercato nero ho una diminuzione di 
costo: un ginocchio elettronico mi costa in media 26 mila euro. Al mercato nero, o cinese, lo trovi 
a 8mila. Teoricamente, dovrebbe acquistarlo l’istituto ortopedico, e poi vendertelo. Lo acquisti da 
privato e senza fattura, in contanti, e soprattutto senza alcuna assicurazione. Però: se riescono a 
produrlo, a vendertelo a 8mila euro, e a guadagnarci pure su, pensa quali sono i margini di 
guadagno quando lo vendono a 25mila euro”.
E quindi il disabile, tra tariffe inadeguate e prodotti obsoleti, si trova dinanzi a un bivio. O 
accetta la protesi e l’ausilio del secolo scorso, rimborsato dal servizio sanitario nazionale, 
oppure ne acquista una tecnologicamente avanzata. Ma a spese proprie. Poi c’è la terza strada: il 
mercato nero. E tutto questo avviene perché, in 14 anni, nessun governo è stato in grado di emanare 
un decreto che aggiornasse il nomenclatore tariffario. Eppure tutti – Stato, utenti, rivenditori, 
produttori – sono d’accordo: l’adeguamento è necessario. Ma allora: perché nessuno chiude la 
partita?

“Colpa di Berlusconi”.

“Noi la riforma l’avevamo fatta nel 2008”, dice l’ex ministro Turco. “Il decreto fu pubblicato 
sulla Gazzetta Ufficiale. Poi il governo Berlusconi l’ha revocato. Sosteneva che costasse troppo. 
Non era un decreto che faceva risparmiare: prevedeva una serie di ausili dei quali i disabili sono 
privi”. E infatti la ragioneria dello Stato, sul decreto firmato dalla Turco, aveva espresso delle 
perplessità: “I Lea, per come li avevamo riformati, secondo la Ragioneria dello Stato erano troppo 
costosi. Ma il decreto non fu bloccato: fu pubblicato”. A fine legislatura. “Sì, ma i soldi per la 
Sanità, con il governo Prodi, li avevamo trovati. Le associazioni che in questi giorni protestano 
hanno tutta la mia solidarietà: è uno scandalo”. Bene, ora che il Pd è al governo con il Pdl, 
prende l’impegno di riformare Lea e nomenclatore tariffario? “Lo chieda al responsabile sanità del 
Pd”. Ma lei è nel Pd. “Per me era già fatto. È stato il centrodestra che l’ha revocato”. La Turco 
rivela un dettaglio importante: “Fu un tavolo di lavoro straordinario. Certo, c’era chi ostacolava, 
come il senatore Idv Giuseppe Caforio, che remava contro”. Ma come: proprio il senatore Caforio 
che, dal canto suo, ha sempre rivendicato questa battaglia? La Turco non è la prima a puntare il 
dito sul senatore Idv. Anche Alberto Tedesco, ex parlamentare Pd ed ex assessore alla Sanità nella 
Giunta Vendola, oggi imputato e indagato in vari procedimenti, qualche mese fa s’è scagliato 
proprio contro Caforio.

Il governo Prodi poteva scivolare su una carrozzina.

La ricostruzione di Tedesco, resa in Senato l’11 aprile 2012, si riferisce proprio al decreto 
firmato dalla Turco. Per la precisione, però, riguarda l’aumento delle tariffe – pari al 9 per 
cento – che avrebbe agevolato gli imprenditori come Caforio. Prima che il decreto diventasse 
operativo, infatti, le aziende di ausili protesici corsero a battere cassa alle Regioni, chiedendo 
che l’aumento diventasse operativo immediatamente. Tedesco, però, all’epoca assessore regionale, 
rispose picche: “Mi fu chiesto di ricevere una delegazione di produttori protesici, nella quale 
credo di ricordare anche Caforio, che venne a chiedermi con forza che anche la Puglia – come altre 
regioni – applicasse l’aumento. Risposi che avremmo applicato l’aumento soltanto quando fosse 
divenuto legge”. Qui la ricostruzione di Tedesco diverge con quella della Turco: “Il governo Prodi 
fece decadere i termini per l’approvazione del decreto, che non fu mai convertito in legge”. 
Secondo Tedesco, quindi, non fu solo colpa del governo Berlusconi: il governo Prodi fece decadere i 
termini. Ma andiamo avanti: “Questa mia posizione determinò una forte reazione di Caforio”, 
continua Tedesco, che aggiunge: “Fui convocato un pomeriggio dal presidente della Regione Puglia, 
Nichi Vendola, che – senza specificare l’interlocutore – mi disse che aveva ricevuto delle 
pressioni da Roma affinché la Puglia si adeguasse agli aumenti”. Che tipo di pressioni? “Qualcuno 
aveva minacciato di far cadere il numero legale in Senato, dove la maggioranza era risicatissima, 
mi pare di soli due voti”. Il riferimento a Caforio è talmente evidente che, quest’ultimo, ha 
querelato Tedesco. E allora sentiamo come commenta l’ex senatore Idv.

L’uomo da 5 milioni di euro.

“Lei sta parlando con uno che ha rifiutato 5 milioni per passare con il centrodestra. Si figuri se 
andavo a ricattare Prodi come dice Tedesco”. La Turco, invece, dice che lei remava contro il suo 
decreto. “Non ho mai creduto che la Turco volesse riformare il nomenclatore. Altrimenti la riforma 
sarebbe andata in porto. Non mi sono scontrato con lei, ma con i suoi funzionari, che stravolgevano 
il senso del nomenclatore. Non avevano alcuna idea di cosa siano l’assistenza e l’officina 
ortopedica. Non parliamo di un negozio d’articoli sanitari: la produzione e l’assistenza sono ben 
altro”. Quella riforma, però, era almeno un passo avanti. “Non è vero: il nomenclatore non era 
neanche stato messo a punto. Era solo un repertorio di prodotti, un’elencazione pensata in modo 
standard, un peggioramento per gli operatori e per gli utenti”. Il senatore Caforio boccia 
senz’appello il decreto Turco. Con il decreto Balduzzi come s’è regolato? “Ero all’opposizione”. 
Quindi? “Ho votato contro: Balduzzi non ha avviato trattative con il settore dei tecnici 
ortopedici. Il nomenclatore non può essere un gesto unilaterale del ministero”.

Bla, bla, bla.

A questo punto c’è un solo fatto certo: la politica, in 14 anni, non ha risolto il problema. Con 
quali modalità, poi, giudicate voi: la Turco accusa Berlusconi di aver revocato il suo decreto; 
Tedesco sostiene, invece, che quel decreto fu lasciato decadere dallo stesso governo Prodi: quindi 
dalla stessa Turco; la Turco accusa il senatore Caforio di averla ostacolata; Caforio accusa la 
Turco di aver bluffato; Tedesco dice che Caforio minacciava di far cadere il governo Prodi se la 
Regione Puglia non avesse adottato gli aumenti; Caforio lo smentisce e querela. Vediamo, allora, 
che ne pensa l’ex ministro Balduzzi.

400 milioni di euro cercansi.

La verità è che i soldi non ci sono. Anzi: ci sono. “La mia riforma era prevista entro la fine di 
maggio”, spiega Balduzzi, “ma io ho rassegnato prima l’incarico. Avevamo fatto una stima dei nuovi 
ausili e delle nuove protesi: erano necessari 400 milioni di euro. È questo il motivo della battuta 
d’arresto: reperire i 400 milioni”. Una possibilità, spiega Balduzzi, in realtà esiste: “Il 
contenimento degli acquisti in Sanità, la spendingreview avviata dal governo Monti, secondo la 
Corte dei conti ha portato risultati superiori a quelli immaginati: si potrebbe attingere da questi 
risparmi”. Si potrebbe: a patto di scrivere un nuovo decreto e ricominciare daccapo. Ma nel 
frattempo, in questi 14 anni, cos’è accaduto al mercato e alle aziende? Il costo sociale di questo 
ritardo – senza contare il disservizio patito dai disabili – è già superiore ai 400 milioni 
necessari per riformare il nomenclatore. Abbiamo provato a contattare anche il neo-ministro alla 
Salute, Beatrice Lorenzin (Pdl), ma non ha voluto rispondere sul tema.

Il ruolo delle multinazionali.

A livello mondiale – e stiamo parlando del solo settore protesi ortopediche – il mercato è dominato 
da un paio di compagnie multinazionali. Sono loro a imporre il prezzo della componentistica. Non 
sono tenute a considerare le tariffe del nomenclatore italiano. I loro prezzi sono spesso 
altissimi. Anche se alcuni prodotti, con l’avvento del mercato cinese, oggi costano meno. “Le 
aziende che sviluppano e costruiscono questi arti – spiega Furlanetto – comprano i pezzi e li 
assemblano. I pezzi, però, costano talmente tanto che le aziende sono in sofferenza. Due grosse 
società multinazionali, una olandese e una tedesca, fanno ormai il bello e il cattivo tempo. In 
sintesi: o vai da loro, o non vai da nessuno, se poi consideri che le aziende lavorano con il 
nomenclatore bloccato da anni, diventa chiaro che il loro bilancio è negativo”. “Queste 
multinazionali – spiega Caforio – hanno iniziato a comprare aziende italiane. Un giorno potremo 
essere soggetti a loro: magari lavoreranno in perdita, per i primi anni, per conquistare il 
mercato, per poi imporsi senza che riusciamo a porre rimedio. E di questo passo saranno in tanti a 
dover vendere la propria azienda: la crisi che patiamo per il nomenclatore, più la crisi 
generalizzata, ci sta mettendo tutti in serie difficoltà”. Nelle aziende di casa Caforio circa 70 
operai sono da tempo in cassa integrazione. E non si tratta di un caso isolato.

Il caso Rizzoli.

Nata nel 1896, 170 dipendenti, 20 filiali in tutta Italia e brevetti di alta tecnologia, come il 
ginocchio e la caviglia elettronica: orgoglio della laboriosa Bologna, eccellenza di livello 
europeo, la officine Rizzoli è fallita il 24 gennaio scorso. Eppure è ancora un’azienda eccellente. 
Infatti continua a produrre: “È vero che la società era insolvente e quindi andava dichiarata 
fallita – spiega il curatore fallimentare Marco Zanzi – ma è altrettanto vero che si tratta di 
un’azienda eccellente, con prodotti validi, che può ancora stare sul mercato. Per questo il 
Tribunale ha autorizzato la continuazione dell’attività: per non liquidare l’azienda e realizzare 
la sua vendita unitaria”. Ma se può stare sul mercato, allora, perché è fallita? “Per tre cause: il 
ritardo dei pagamenti da parte del servizio Sanitario nazionale, i debiti con le banche, 
l’inadeguatezza del nomenclatore tariffario”.
Proprio così: la mancata riforma del nomenclatore tariffario è tra le cause principali del 
fallimento Rizzoli. Perché? “Ha inciso con una grave riduzione dei margini di guadagno, quindi con 
una riduzione della redditività aziendale, che è una delle cause che hanno determinato 
l’insolvenza”. In sostanza: a causa del nomenclatore tariffario, la Rizzoli ha guadagnato meno. 
Guadagnando meno, non ha potuto pagare i debiti con le banche. Non pagando i debito con le banche, 
è fallita. Ora si punta alla vendita.

Cannibalizzate le eccellenze italiane.

La prima asta per l’acquisto della Rizzoli è andata deserta: “Il 23 aprile – dice Zanzi – non ha 
partecipato nessun offerente. Ci sono altri contatti: è probabile che al prossimo tentativo 
partecipino società estere”. Tra queste, la Otto Bock, una delle multinazionali più potenti nel 
mercato mondiale. E quindi, il mancato adeguamento del nomenclatore tariffario, che costerebbe oggi 
400 milioni di euro, di fatto ci sta già costando parecchio. Basti pensare al solo caso Rizzoli: lo 
Stato paga la Cassa integrazione per 170 operai e l’azienda rischia di finire nelle mani di una 
multinazionale che, già ora, è in grado di condizionare sia il mercato italiano, sia la nostra 
spesa sanitaria, con i suoi prodotti. E diventano ancora più amare le considerazioni di Guido 
Furlanetto.

Posso fare tutto quello che voglio.

“Con i soldi che eroga lo Stato, potresti avere dei disabili in grado di fare tutto quello vogliono 
– afferma Furlanetto – o tutto quello che possono, quindi una società migliore di quella che 
abbiamo adesso. In questo momento sto montando degli ombrelloni. Me li sono montati da solo, anche 
se mi manca un piede, anche se sono un handicappato, io mi faccio i miei lavori”.
Ecco: quanto ci guadagneremmo se, invece di perdere 14 anni di occasioni per riformare un solo 
nomenclatore tariffario, lo Stato s’impegnasse a rendere autonomi e indipendenti milioni di 
disabili.
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