jannacci Addio Enzo Jannacci... ma che voglia di piangere. Ascolta l'allegato mp3 Il poeta e musicista milanese dello splendido e struggente "Via del campo" e dell'amarissimo ironico "Vengo anch'io? No, tu no!" ci ha lasciato. Ascoltalo e leggi le commemorazioni de" Il Giornale" e del" Corriere della sera." *** da Il Giornale del 30\03\2013. È morto ieri sera, all’età di 77 anni, Enzo Jannacci. Lo hanno riferito fonti della Clinica Columbus di Milano, dove il cantautore, malato di cancro, era ricoverato da alcuni giorni. Jannacci si è spento intorno alle 20,30. Accanto a lui c’era tutta la sua famiglia. Nato a Milano il 3 giugno 1935, Jannacci si era formato musicalmente con il jazz (addirittura suonando con un mostro sacro come Chet Baker). Poi, accompagnato dal sodalizio con Giorgio Gaber, la sua lunga e fortunatissima avventura artistica (di pari passo con la professione di medico) era proseguita fra cabaret e dischi, apparizioni televisive e spettacoli teatrali. *** Paolo Giordano Peccato, se non altro perché questa Italia gli sarebbe piaciuta oltre ogni limite: surreale, dimessa, ridicola. Enzo Jannacci se ne è andato ieri sera togliendo a tutti quel riflesso che solo lui era riuscito a dare: come Longanesi, era grave ma non serio. Come i democristiani, era cattolico ma non credente. Come i veri rockettari, demoliva i luoghi comuni. Vengo anch’io, no tu no. D’altronde lì era nato, nella culla del rock italiano, dopo il liceo Manzoni di Milano con Giorgio Gaber (con cui formò I Due corsari) e la laurea in Medicina, dopo Elvis e Chuck Berry, dopo Clem Sacco e Adriano Celentano e tutta la Genova bene della canzone d’autore con Gino Paoli, Luigi Tenco e Bruno Lauzi. Jannacci era con chiunque, su disco in tv o in radio, ma è sempre rimasto da solo. Nessuno, neanche il cardiologo Christiaan Barnard che lo volle nella sua equipe in Sudafrica, riuscì a tenerlo nella propria squadra. Era un solista, non c’è niente da fare. Forse perché aveva suonato jazz con solisti in pectore come Stan Getz o Gerry Mulligan o Franco Cerri. O perché, dopotutto, aveva una cifra sua e inimitabile che oggi rende orfani tutti. Lui se ne è andato dopo una lunga malattia e un silenzio meno lungo ma ugualmente doloroso: ha partecipato nel 2010 e nel 2011 a Zelig, dove il suo bravo figlio Paolo è direttore d’orchestra, facendo evidente, sempre più evidente, la lontananza tra sé e la comicità di oggi, tutta politica, tutta molto spesso volgare. Jannacci, sia che cantasse recitasse o scrivesse, era inattaccabile, elegante e geniale al punto di entrare nella lingua italiana anche quando cantava in dialetto milanese come in El portava i scarp del tennis, anno 1964, autentico ritratto di un senzatetto milanese che ancora oggi, nelle serate di nebbia in Piazza Affari o sotto i portici di via Rovello, si può trovare inalterato. Ecco, mezzo secolo dopo, anche dopo aver traballato in classifica e nella propaganda commerciale, Jannacci è ancora attuale. Forse più attuale ora di quarant’anni fa, quando si assopì e sparì per un po’ dalle scene mentre tanti suoi amici, da Cochi e Renato, da Dario Fo fino a Mina, decollavano lanciando le proprie carriere. Ed è per questo che ieri sera, appena saputo della morte, tanti hanno detto: senza di lui non ci sarebbero i cantautori. Sembra un paradosso ma non è così. Fabrizio De André, ad esempio, giovanissimo usò la sua La mia morosa la va alla fonte, basata si di una trama musicale del XV secolo, come accompagnamento melodico di un suo superclassico come Via del Campo. Ed è inutile, persino stucchevole, ricordare Quelli che, il suo settimo disco del 1975 (registrato oltretutto con maestri come Tullio De Piscopo e Bruno De Filippi) che è diventato uno slogan per tv, titoli di giornale e insomma proclami di attualità. Anche oggi che se ne è andato, Enzo Jannacci è quello che. Quello che ha tirato fuori ciò che Alberto Sordi non poteva tirare fuori. Ciò che la politica evitava. E ciò che la gente non riconosceva perché in tutt’altre faccende affaccendata. Se uno ci pensa, Jannacci in tv è apparso poco in questi ultimi venti o trenta anni. Ma c’è sempre stato, privilegio, questo sì, di pochi. E forse, lui così sarcastico, ha scelto il momento giusto per andarsene. Malato, malatissimo, ha resistito fino a che la sua Italia ha resistito: ora che cambia non gli interessava più l’effetto che fa. E ha preferito, lui così fuori dalla realtà pur essendoci calato dentro fino al collo, evitare di averne a che fare perché intanto l’aveva già detto, quand’era in teatro al Carcano di Milano o sul set di Lina Wertmuller e Monicelli, quand’era Uomo a metà sulle tracce di Gaber (2003) oppure con Fazio che lo ha ospitato per l’ultima volta in tv a fine 2011. A farci caso, anche se distante ormai dal mondo, Jannacci era ancora dentro la nostra vita. E oggi, mentre scatteranno puntuali tutti i necrologi, lui da lassù se la riderà di gusto. Forse per la prima volta. Forse perché li aveva previsti già quel giorno del 1956, quando diventò tastierista dei Rocky Mountains e sapeva già di essere da un’altra parte. Fuori. O forse sopra. *** dal corriere della sera del 30\03\2013. Jannacci, un re in scarpe da tennis Enzo Jannacci ( in una foto scattata dal figlio Paolo ) si è spento ieri sera nella Milano dove era nato. A 77 anni, ucciso da un cancro. Cantautore, musicista, cabarettista (con Cochi e Renato), cominciò in duo con Gaber di cui fu amico per 40 anni. Scrisse canzoni indimenticabili : El portava i scarp del tennis , Vengo anch'io , no tu no , Messico e nuvole . Laureato in medicina, fu chirurgo nell'équipe di Christiaan Barnard. Il cantautore Enzo Jannacci è morto ieri sera alla Clinica Columbus di Milano. Aveva 77 anni ed era ammalato da tempo di cancro. Accanto a lui tutta la famiglia. E nzo Jannacci è stato il rappresentante di una cultura musicale e cabarettistica tipicamente milanese. Non solo un cantautore, ma un caposcuola, intorno al quale si sono aggregati personaggi di grande rilievo come Cochi Ponzoni, Renato Pozzetto, Massimo Boldi, Sandro Viola. Fra i migliori amici del medico-cantautore, l'avvocato cantante Paolo Conte. E poi Giorgio Gaber, per lungo tempo compagno di scena (la loro esecuzione di "Una fetta di limone" in stile Blues Brothers resta un classico), e Dario Fo che rimase subito colpito dal suo talento. Jannacci ha firmato canzoni di rara bellezza, ironiche, struggenti. Ha cantato il mondo dei perdenti, come il "Palo della Banda dell'Ortica" o la "Vincenzina davanti alla fabbrica" o, simbolo degli emarginati a vita, il protagonista di "Vengo anch'io". Ha trasformato in eroe un cornuto strutturale come l'Armando, e in eroina del libero amore la molto disponibile Veronica (che lo faceva "al Carcano, in pé", in piedi). Faccia indefinibile, fra lo stupefatto, l'imbarazzato e l'immobile, quella parlata apparentemente stentata e nasale: per anni Jannacci oltre che cantante è stato un comico, capace di scoprire altri comici. Enzo Jannacci era nato a Milano il 3 Giugno 1935. Colpisce subito il suo lavoro serio e rigoroso su due fronti: la medicina e la musica. Si laurea e si specializza in cardiochirurgia da una parte, e dall'altra frequenta il conservatorio diplomandosi in pianoforte, armonia e direzione d'orchestra. Il successo arriva abbastanza presto, ma lui non rinuncia a fare il medico, esattamente come Vecchioni non molla l'insegnamento al liceo e Paolo Conte il mestiere di avvocato. Di giorno in ospedale, di notte a cantare. Muove i primi passi al Santa Tecla di Milano dove si esibisce con Tony Dallara, Adriano Celentano e Giorgio Gaber. Poi al Derby le sue doti cabarettistico-musicali colpiscono Dario Fo che lo inizia al teatro. La prima canzone viene pubblicata nel 1959 e si intitola "L'ombrello di mio fratello". Poco dopo "Il cane con i capelli". Appare evidente che Jannacci sa coniugare musica e comicità. Seguono tanti altri successi come "Vengo anch'io. No, tu no", "Giovanni telegrafista", "L'Armando", "Veronica". Più avanti arriverà "Quelli che". Più che una canzone, è un "format" che può essere continuamente aggiornato. E' un florilegio di comportamenti umani, a volte folli, a volte disonesti, a volte inspiegabili. "Quelli che... tanto il calcio è solo un gioco e poi quando perde il Milan picchiano i figli... Quelli che votano scheda bianca per non sporcare". Aggiornata nel corso dei decenni fa il paio con un'altra canzone, "Puli Puli", che colpisce a 360° in dialetto milanese, dai "cantautur" (che quando cànten se senti l'udùr) a "Chi di giurnàl" (chè il so' mestè l'è cunta su i bal). Jannacci ha firmato capolavori come "El purtava I scarp del tennis", "Andava a Rogoredo", "Sfiorisci bel fiore", ma è stato anche superbo interprete di canzoni altrui come "Ma mi" di Carpi e Strehler (cavallo di battaglia anche della Vanoni), "Bartali" di Paolo Conte, "La strana famiglia" di Gaber-Alloisio. Affreschi di solitudine e malinconia sono "Giovanni telegrafista", mollato dal grande amore a colpi di punto-linea e "Mexico e nuvole". Jannacci ha composto anche numerose colonne sonore per Romanzo popolare di Monicelli, per Saxofone di (e con) Renato Pozzetto, per Pasqualino Settebellezze . Senza contare le canzoni scritte per Cochi e Renato, a cominciare dalla "Canzone Intelligente", sigla del varietà tv della domenica, "Il poeta e il contadino" e "E la vita la vita", sigla di una "Canzonissima". In teatro non disdegnava il ruolo di autore puro, che non appare: come La tappezzeria , scritta a quattro mani con Beppe Viola che nel 1975 fu il trampolino di lancio di Massimo Boldi, Diego Abatantuono, Enzo Porcaro, Giorgio Faletti, Mauro Di Francesco. Nel 1989 partecipa per la prima volta al Festival di Sanremo con "Se me lo dicevi prima". Nel '91 ci riprova con "La fotografia" in coppia con la grandissima Ute Lemper e riceve il Premio della Critica. Nel '94 è ancora all'Ariston in coppia con Paolo Rossi con il brano "I soliti accordi", arrangiato da Giorgio Cocilovo e Paolo Jannacci, suo unico figlio e grande musicista. Nel finale della sua carriera Jannacci era tornato al jazz, il suo vecchio amore. Straordinario il rapporto col figlio Paolo: ordinato, sistematico e preciso, Jannacci jr. ha contribuito a prolungare la carriera del padre che ha aiutato e sostenuto fino alla fine. Jannacci ne era consapevole e quando Gaber pubblicò "La mia generazione ha perso" commentò: "Una generazione che ha avuto figli come Dalia (figlia di Gaber, n dr ) e Paolo, non può dire di aver perso". Mario Luzzatto Fegiz *** la Città nella sua Voce la Città nella sua Voce. GIAN LUIGI PARACCHINI. C' e ra Milano nella sua voce. Le lacrime di Renato Pozzetto al telefono: Jannacci, con le sue canzoni, era la città delle periferie, della nebbia, degli sballati e dei nottambuli. S uona a lungo il telefono di Renato Pozzetto. Poi un "Pronto?" cupo e rotto dai singhiozzi. Certo non è il momento di parlare questo: ha saputo pochi secondi prima dalla figlia Francesca che Enzo è morto. Jannacci per lui e per Cochi, amici da una vita, è stato il maestro, il fratello maggiore, infine l'amico da cui non si sono mai separati, almeno idealmente. Renato si sente di dire qualcosa? Qualsiasi cosa, anche soltanto un aggettivo. "No, no, mi dispiace, non riesco nemmeno a parlare. Vorrei dire molto su Enzo, su quanto siamo stati uniti, sui momenti straordinari che abbiamo passato insieme, sulle canzoni, su quella Milano, ma non ce la faccio, sto troppo male, mi spiace davvero". Un pianto lungo, senza freni, quasi infantile, interrompe la telefonata. E rimangono le domande che avremmo voluto fare. Ci sarà mai più un barbone con le scarpe "del" tennis che chiede un passaggio per andare all'Idroscalo? E il palo di una banda, quella dell'Ortica, "che'l ghe vedeva un acident"? Non sappiamo che cosa avrebbe risposto Renato. Ma siamo convinti che di personaggi così non ce ne saranno davvero più. Perché di altri Enzo Jannacci, cioè d'un grande poeta comico, malinconico e surreale, che ha cantato Milano con quella grazia e quella impareggiabile sottigliezza letteraria e popolare, non sono previsti epigoni. Lui, con Giorgio Gaber, sono stati i massimi e più sensibili interpreti d'una Milano che sarà impossibile descrivere e cantare per il semplice fatto ché non esiste più. La forza di Enzo è stata quella d'inventare personaggi e situazioni che parlavano anche in puro dialetto meneghino ma che lui ha saputo trasformare in maschere senza confini regionali. Sia che fossero a sfondo delicatamente hard come in "Veronica/con te l'amore non era cosa comoda/al Carcano (cinema-teatro, ndr ) in pè!....". Sia che implicassero sentimenti addolorati come in "Andava a Rogoredo", con lui che aveva portato una lei a vedere la fiera, le aveva comprato un krapfen e lei se ne era scappata con il resto d'"un des chili" (dieci mila lire, mica noccioline) senza farsi vedere mai più. Soltanto uno come Jannacci, con la svitatissima, geniale collaborazione di Dario Fo, poteva cantare una canzone come "La forza dell'amore", in cui c'è un vecchio zio appena uscito dalla "neurodeliri" che ne combina di tutti i colori, tipo "tampinare un ghisa" ma tanto cantava lui che cosa gli si può fare? "El gà vutant'ann!" (ha 80 anni!). Non importa che Jannacci (ha vissuto a lungo a Città Studi, vicino al Politecnico) fosse milanese acquisito. In realtà lui era più milanese di tanti milanesi plurigenerazionali, avendo assimilato l'anima d'una città nebbiosa, già rumorosa negli anni 60, più povera e meno glamour di quella attuale ma infinitamente più aristocratica nei modi, nella solidarietà e nei sentimenti. Le ombre di quella Milano che lui aveva cantato tante volte al Lirico, al Manzoni, al Santa Tecla, al Derby, lo piangono con sincero rimpianto. Gian Luigi ParacchiniTorna all'indice