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La nuova vita di Internet: sempre più a pagamento.
Corriere della Sera - 31 gennaio 2013, giovedì
Marta Serafini "Fai in modo che si abituino ad avere un servizio gratis. E poi chiedi loro di
pagare per continuare ad averlo". La strategia di marketing è chiara: prima rendere l'utente
dipendente da un'app o da una piattaforma. Poi, quando questo non ne può più fare a meno, gli si
impone un canone. Un "ricatto", forse, che a molti non piace. Nativi digitali in testa.
Capita, sempre più spesso, anche con una delle applicazioni più scaricate al mondo: WhatsApp. Il
servizio di messaggistica è gratuito. Una volta scaricato sullo smartphone, permette di chattare
senza pagare un costo aggiuntivo. Tutto risolto? No, perché dopo un anno di utilizzo l'applicazione
diventa a pagamento, sia per gli utenti Android (79 centesimi all'anno) che per quelli iOS (0,89
euro). "Cos'è? Come un canone Rai", si lamenta qualcuno su Google Play. "Boicottiamolo", scrive un
lettore a Corriere.it . Ma c'è anche chi sottolinea: "Le condizioni del servizio sono indicate
chiaramente. Quindi non lamentatevi. E in più la cifra richiesta è ridicola a confronto con quello
che si spende per gli sms". Già, i termini del contratto sono chiari.
Le compagnie sanno che i servizi a pagamento sul web sono impopolari e procedono per tentativi. Se
si accorgono che i download calano, rimettono in circolazione solo la versione gratuita
dell'applicazione ed eliminano quella con il canone posticipato, in modo da acquisire nuovi utenti.
Il tutto creando grande confusione. Soprattutto se si pensa che piattaforme come YouTube, DropBox,
Linkedin o Gmail sono diventati ormai strumenti di lavoro, indispensabili per comunicare con i
propri contatti. "Il problema sono i ricavi pubblicitari", spiega Marta Valsecchi dell'osservatorio
Mobile e Web del Politecnico di Milano. "Il servizio deve essere sostenibile per le software house
. Una volta lanciato il prodotto, se le inserzioni sono insufficienti, viene introdotto il canone
per fare cassa". Il trucchetto però non sempre funziona: "Soprattutto i giovani sono abituati ad
avere tutto gratis in rete, dai film, passando per le canzoni fino ai servizi di chat. Quindi non
sono disposti a pagare".
E' un attimo e il pensiero corre al dibattito scatenato negli Usa dallo Stop Piracy Online Act (la
proposta di legge contro la pirateria in rete). Secondo molti, in testa gli hacktivist, è giusto
che alcuni servizi siano gratuiti. Perché aiutano a diffondere le informazioni. E perché permettono
la condivisione del sapere. "Inoltre, se la concorrenza in rete è tanta, ci sarà sempre qualcuno
pronto a offrirti gratuitamente la stessa cosa che tu proponi a pagamento", continua Valsecchi.
Gratis però non è sempre sinonimo di qualità. Il rischio è infatti - avviene con Facebook - che
l'azienda non faccia pagare nulla ma poi utilizzi i dati sensibili dei suoi utenti per fare
profitto.
Non a caso è successo anche con WhatsApp, di recente tacciata di acquisire tutti i nomi della
rubrica telefonica dei suoi iscritti. Così come Facebook viene accusata, ormai ogni giorno, di non
rispettare la privacy degli utenti. Non appena però Menlo Park parla di introdurre un canone, fosse
anche solo per inviare i messaggi privati a contatti vip, gli iscritti minacciano la fuga. E stessa
cosa succede per Twitter, dove i trending topic a pagamento fanno venire l'orticaria ai puristi dei
140 caratteri.
Stallo alla messicana, lo chiamerebbe il regista Quentin Tarantino. Il cane che si mangia la coda
per quelli che non amano il genere pulp. La strategia per uscirne? "Molti si rifiutano di pagare
perché hanno paura di dare il proprio numero di carta di credito. Sarebbe sufficiente legare il
canone del servizio all'abbonamento del telefono e gli utenti diventerebbero più disponibili",
conclude Valsecchi. Ma siamo davvero sicuri che basterebbe solo questo?
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