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Da genitori a genitori (3)

NIDO/SCUOLA MATERNA

1. COS’HANNO IL NIDO O LA SCUOLA MATERNA CHE NON HA LA FAMIGLIA?

Sembra a volte che la scelta tra mandare o non mandare il bambino a scuola prima dei sei anni dipenda soprattutto da motivi di ordine pratico: se non si dispone di nonni ancora in gamba, se la mamma non può restare a casa, se non ci si può permettere la baby-sitter, allora si è costretti a mandare il bimbo all’asilo, ma, “con tutti problemi che ha”, sarebbe stato meglio tenerlo a casa.

Le ragioni per rifiutare in maniera assoluta questo tipo di ragionamento sono davvero tante.

In una società in cui la gran parte dei bambini sono scolarizzati, in cui nei cortili dei caseggiati non si gioca più, in cui le famiglie sono mononucleari, in cui spesso i figli sono unici, tenere il bambino a casa è badarlo attraverso degli adulti privandolo dell’incontro con i coetanei.

Ormai l’incontro con i coetanei avviene nelle scuole dell’infanzia, dove gli spazi, le attività, il personale sono predisposti per gestire e condurre la socializzazione tra i pari età.

Chi può offrire al proprio figlio, al giorno d’oggi, i compagni che gli offre la scuola?

I fratelli o i cugini, quando ci sono, hanno già le loro attività e comunque sono sempre familiari, quindi hanno un atteggiamento diverso da quello degli altri coetanei; gli amici non li si cerca tra i parenti; i compagni e gli amici sono quelli che ci trattano alla pari, senza finzioni e senza preconcetti. “Le maestre mi dissero sorprese che aveva dato un pugno ad un compagno che lo aveva infastidito.”

Da piccoli impariamo cosa vuol dire che ci sono gli altri, impariamo ad impostare le relazioni; non possiamo privare nostro figlio di questo incontro indispensabile.

Lo fanno tutti gli altri bambini che diciamo normali; perché dovremmo non farlo fare noi ai nostri figli?  Prima si incomincia meglio è, anche perché sono già tanti i motivi per cui di fatto il bambino frequenta meno degli altri i suoi coetanei.

Gli effetti si vedono subito: il bimbo cambia atteggiamento, è più autonomo, manifesta di più il suo carattere, è meno egocentrico e si capisce che i compagni lo trattano in un modo “franco”, un modo che nessuno dei familiari può surrogare.

Inoltre il legame materno si allenta per un po’ di ore e ciò giova sia al bambino che alla mamma.

2. COME POTRA’ FREQUENTARE IL NIDO E LA SCUOLA MATERNA SE DEVE SPESSO SOTTOPORSI A CONTROLLI, A VISITE MEDICHE O AD INTERVENTI CHIRURGICI VERI E PROPRI?

Effettivamente molte delle malattie della vista dei nostri figli sono evolutive ed i primi anni di vita sono proprio quelli in cui si verifica il più frequente andirivieni da case di cura, ambulatori e ospedali.

Per questo al tempo del nido e della materna può sembrarci inutile inserirli in una scuola che non potranno frequentare con continuità e quindi farci decidere di rimandare tutto all’inizio della scuola dell’obbligo.

Una domanda però ce la dobbiamo fare: se la salute è sia quella fisica che quella psichica, è possibile lasciare nostro figlio in una sorta di stato di sopravvivenza, per 3 o 4 anni, rispetto a quei rapporti sociali che risultano essenziali per uno sviluppo equilibrato?

La risposta non può essere che una: si devono considerare come importanti ambedue i percorsi e non impegnare tutte le energie solo su quello medico, supponendo che a quello psichico-sociale ci si potrà pensare poi in un secondo momento; i due percorsi sono contemporanei e vanno seguiti entrambi.

L’inserimento nelle strutture socializzanti che sono il nido e la scuola materna va fatto comunque e va sfruttata ogni occasione, per quanto discontinua e limitata, perché nostro figlio le frequenti.

A volte poi si è portati a fare errori di valutazione, continuando a concentrare energie preponderanti sugli aspetti medici anche quando questi ormai possono incidere solo marginalmente sullo stato della vista di nostro figlio, senza significative prospettive di miglioramento.

E’ come se si continuasse a ricercare o ad aspettare il rimedio miracoloso che potesse di colpo rimuovere il deficit della vista e ristabilire per via medica la normalità, senza preoccuparci di attivare nel frattempo quei meccanismi di crescita che comunque serviranno al bambino sia che la sua vista migliori sia che resti quella che è.

Con l’andar degli anni, in molti casi, le esigenze terapeutiche calano e allora appare in modo chiaro – sperando che non sia un po’ tardi - che ci si deve occupare della salute mentale del bambino; è questo un momento di grande sollievo perché, mentre per il deficit fisico forse si è giunti ad un punto morto, per la vita psichica e sociale c’è sempre da fare moltissimo e i miglioramenti sono garantiti.

Anche i nostri figli vivono le due situazioni in maniera diversa: nel contesto delle cure mediche sono di fatto dei soggetti passivi, mentre nell’ambito della crescita sono soggetti attivi, sono i protagonisti assoluti. Uno dei nostri figli ha mostrato in modo chiaro questa consapevolezza quando, alla scuola elementare, ha detto basta a visite in ambulatori ed ospedali, che da tempo non portavano ad alcun risultato concreto; non ne poteva più, voleva prendere a mano la sua vita come persona, non come malato.

3. MA NON SI FARA’ MALE?

Forse questa è l’unica preoccupazione che ha un qualche fondamento oggettivo: che nostro figlio, non vedendoci, rischi più degli altri di farsi male o di farne a qualche bambino.

Se però riflettiamo meglio sulla questione, ci rendiamo conto che la preoccupazione va’ molto ridimensionata: al nido od alla scuola materna la sorveglianza che educatrici e insegnanti avranno su nostro figlio sarà sicuramente alta, superiore a quella normalmente fornita agli altri bambini; dopo aver ispezionato gli ambienti e messo in sicurezza le parti della struttura più a rischio ( colonne, gradini, maniglie, ecc.) i pericoli si saranno sensibilmente ridotti;  si potranno individuare gli spazi dove sarà possibile muoversi con più libertà e quelli dove si dovrà prestare più attenzione; nelle attività di movimento più vivaci il personale della scuola adotterà delle precauzioni, eventualmente mascherate in maniera giocosa e simpatica e potrà sempre dirottare nostro figlio su ruoli con minore rischio di contatto fisico incontrollato.

Beninteso parliamo di rischi limitati: un bernoccolo, un graffio o un ginocchio sbucciato; se ci fossero problemi più seri legati al movimento, come quello del distacco della retina, le considerazioni andrebbero approfondite con esperti e le modalità dell’inserimento andrebbero calibrate molto di più sulla specificità del bambino. 

Se si può fare una considerazione generale, è quella che il pericolo non lo potremo mai eliminare completamente; tutti lo corriamo, in casa e fuori, ma non per questo rinunciamo a vivere o ci chiudiamo in un bunker; anzi l’abilità di vivere prevede proprio che si “conviva” con i rischi, si impari a conoscerli, a valutarli, a regolare il comportamento su di essi. L’asilo è per nostro figlio un primo banco di prova in cui incominciare a mettere a punto questa abilità di vita.

4. MA LA SCUOLA E’ PREPARATA?

E’ raro che le scuole siano già attrezzate per accogliere un bambino che non ci vede, essendo questo ormai un evento abbastanza poco comune; nondimeno ci possono essere scuole, come quelle di ispirazione montessoriana, già strutturate per potenziare la sensorialità e adatte quindi ad accogliere un bambino cieco o ipovedente.

Per la nostra esperienza la scuola non era preparata, ma si è attrezzata in corso d’opera per adeguarsi alla nuova situazione.

Da noi la scuola è stata scelta per lo più senza particolari ricerche, forse perché quasi tutte le scuole erano in una situazione di partenza tra loro simili; ci si fa consigliare, si cerca di capire la disponibilità del personale, ma si rimane di solito nel territorio vicino a casa o al lavoro.

Tra i problemi ricorrenti dal punto di vista degli ambienti c’è, abbastanza evidente, quello degli spigoli e dei gradini e quello, meno evidente, del rumore: spesso gli spazi sono ampi e indivisi e le attività collettive creano quel sottofondo di rumore continuo che per il bambino è stancante.

“Il consulente propose di costruire un divisorio in cartongesso, ma non se ne poté fare nulla.”

Riguardo alle attività che vengono organizzate, è determinante l’atteggiamento del personale e la disponibilità che offrono per adeguare la programmazione standard al nuovo bambino; è comunque molto più facile portare degli adeguamenti alle attività che si fanno alla scuola materna piuttosto che a quelle che si faranno poi nelle scuole successive e quindi, se c’è buona volontà nel personale ed un esperto dell’Asl o di altra struttura che fornisca le indicazioni fondamentali, l’inserimento viene bene anche se nella scuola non hanno avuto altre esperienze in precedenza.

“Alla materna hanno messo dei segnalini tattili all’ingresso delle stanze, delle spugnette sugli stipiti, per renderli riconoscibili”; “I pennarelli colorati di mio figlio sono stati scelti tra quelli più vivaci”; “ I suoi colori sono stati segnati con un giro di nastro adesivo così che tutti potessero usarli, ma poi fossero facilmente radunabili”.

Non si deve poi sottovalutare il fatto che come genitori possiamo contribuire in prima persona al lavoro delle insegnanti, passando loro tutte quelle informazioni e conoscenze specifiche che abbiamo accumulato con l’esperienza fatta in casa.

5. IL BAMBINO VA’ PREPARATO?

Nell’inserimento alla scuola si dedica un tempo specifico, maggiore rispetto a quello che  serve per gli altri bambini, per far esplorare al bambino tutti gli spazi; egli poi diventerà in breve tempo sufficientemente pratico da potersi spostare all’interno della scuola senza necessità di quegli ausili o aiuti particolari che vengono utilizzati nella fase di inserimento.

Non gli si deve far avvertire che si sta in ansia per lui, altrimenti, invece di incoraggiarlo e rassicurarlo, lo si frena, facendogli sospettare che a scuola ci siano pericoli in agguato.

I nostri figli non hanno mostrato particolari ritrosie o fatto seria opposizione alla scuola; ci sono andati senza problemi; all’inizio sono stati casomai riservati e vigili, ma poi si sono ambientati ed inseriti non tanto diversamente dagli altri bimbi. Non c’è sembrato di averli dovuti preparare psicologicamente.

E’ stato invece molto importante impiegare con loro del tempo per conoscere ed usare autonomamente i nuovi oggetti: lo zainetto, il grembiule, l’asciugamano, i ricambi del vestire, ecc. E’ questa un’occasione assolutamente da non perdere per avviare con loro il percorso della conquista delle autonomie nello svolgere le semplici prime attività di cura della persona: abbottonarsi i vestiti, allacciarsi le scarpe, tenere in ordine le cose, non perderle, ecc.

Ci siamo accorti che, in questo compito di “svezzamento”, noi genitori rischiamo di non essere pronti, abbiamo la tendenza a rimandare la cosa al domani, sottovalutiamo le potenzialità del bambino, continuiamo a fargli da servitori e in questo modo lo danneggiamo, mantenendolo dipendente da noi, quando invece potrebbe già incominciare a farcela da solo.

Sicuramente l’addestramento del bambino all’esecuzione dei gesti necessari richiede più tempo, abbastanza più tempo, rispetto al normale, perché lui non può imitare i nostri gesti attraverso la visione; per questo la mattina ci si deve alzare un po’ prima ( “Abbiamo dovuto anticipare di un quarto d’ora la sveglia, che era già assai mattiniera”)  e durante il giorno dobbiamo ritagliarci qualche altro momento per prenderci accanto nostro figlio, fargli toccare le nostre mani mentre compiamo i gesti necessari e pian piano insegnarglieli.

Possiamo adottare strategie su misura per la sensibilità ed il gusto dei nostri figli: “ Prima ti metti il cappotto ( che non ti piace) e poi bevi il latte ( che ti piace)”.

Non ci nascondiamo che la fretta, le tante cose da fare, la ricerca della soluzione sul momento più rapida, la stanchezza, sono tutti elementi che lavorano contro le nostre buone intenzioni di genitori; se un pensiero ci può aiutare in quei momenti è che il tempo “perso” ad addestrare nostro figlio diventerà a breve e definitivamente  tempo “guadagnato”, con tanto di interessi.   

SCUOLA ELEMENTARE

6. COSA CAMBIA NEL PASSARE DALLA MATERNA ALLE ELEMENTARI?

L’asilo è un luogo più ludico, la scuola elementare è sottoposta a regole molto più stringenti e poi dura 5 anni, 5 anni che sono fondamentali per tanti aspetti.

Per questo nella scelta della scuola elementare si fanno valutazioni più approfondite rispetto alle scelte precedenti: “Ci sono gli insegnanti di sostegno? Sono disponibili? Le classi sono numerose? ecc.” e non è così infrequente che non venga scelta la scuola più vicina a casa, bensì un istituto che offra migliori garanzie di un buon inserimento.

“Ho scelto una scuola privata perché aveva pochi bambini e aveva tra le sue finalità quella di insegnare a vivere”.

“Io ho fatto una ricerca accurata, ho voluto conoscere bene la struttura, l’offerta formativa, ho voluto l’intervento da subito della neuropsichiatra”.

“Il passaggio alle elementari è stato significativo; alla materna c’era stata un’esperienza poco positiva con gli altri genitori, c’era correttezza formale, ma si avvertiva freddezza e pregiudizi; abbiamo optato per una scuola più lontana, popolare e più complessa come ambiente, ma più avvezza ad integrare; ed è stato così, c’è stato vero inserimento, accoglienza da subito da parte degli altri compagni, possibilità di fare amicizie”.

Per il bambino c’è da capo la necessità di esplorare l’ambiente nuovo prima che inizino le attività.

Anche con le nuove insegnati si ricomincia da capo; benché ci sia la cartella con le informazioni sul bambino preparata dalle maestre della scuola materna, in realtà i nuovi insegnanti attendono che le notizie siano loro riferite direttamente dai genitori, oltre che dagli esperti.

Alle elementari si fa poi più concreto il rischio che nostro figlio sia considerato “speciale” nel senso, sbagliato, di una persona che è più delicata e fragile ( tradotto = incapace e minorata) e ha bisognoso di speciale aiuto e di assistenza ( tradotto = certe cose non gliele faremo fare o le faremo noi per lei). Questo rischio aumenta man mano che nel ciclo scolastico aumenta la richiesta di prestazioni cognitive ( una per tutte: matematica e geometria) o fisiche ( ginnastica).

E’ probabilmente molto più facile badare un bambino, piuttosto che motivarlo; lasciarlo seduto sulla panchina, piuttosto che predisporre una attività di palestra che lo coinvolga, accontentarsi di ciò che può produrre senza sforzo, piuttosto che esigere.   

Come genitori dobbiamo trasmettere fin da subito alla scuola la convinzione che l’impegno nei suoi confronti dovrà essere finalizzato affinché egli “faccia le cose” e non al contrario, affinché si trovi la scusa perchè “non le faccia”.

7. COME DOBBIAMO STARGLI VICINO NEL NUOVO CICLO SCOLASTICO?

C’è sicuramente un interessamento coscienzioso di noi genitori per poter percorrere “in parallelo” il percorso scolastico del figlio; forse il tratto più specifico di questo interessamento è imparare a leggere il braille, nel caso in cui il bimbo lo debba usare.

“Abbiamo seguito un corso braille per prepararci anche noi.”

Questo è importante soprattutto all’inizio, anche per la funzione di rassicurazione che svolge, perché poi col tempo il bambino diventa talmente autonomo da rendere superata questa attenzione iniziale.

Ma c’è un interessamento ancora più importante che dobbiamo dare ed è quello di aiutarlo a crescere con le sue forze e non con le nostre.

Bisogna stare infatti attenti a come si segue la scuola assieme al figlio, perché può trasformarsi in un “al posto del figlio”. Succede ad esempio quando la mamma legge lei per il figlio, studia lei per il figlio e poi gli ripete la lezione, e così via; il figlio può approfittarne e adagiarsi in un atteggiamento passivo che non gli fa’ bene.

E’ un protezionismo doppiamente dannoso, sia perché lancia al figlio un messaggio di sfiducia nelle sue capacità: “abbiamo paura che tu non ce la faccia”, sia perché lo priva di quell’addestramento quotidiano - con compiti che sono dapprima semplici e poi via via più complessi -  che lo rende capace di farcela da solo.

I compiti a casa sono proprio un banco di prova in cui si può privilegiare o la garanzia a vita di un sostegno esterno o la conquista della autonomia.

Anche i nostri figli si dividono istintivamente tra le due categorie: quelli che apprezzano e ricercano il sostegno degli adulti e quelli che mal sopportano di essere “badati” e vogliono fare da soli.

In concreto i due comportamenti estremi che ne derivano possiamo immaginarli così: nel primo caso il bambino si siede al tavolo, la mamma guarda il diario, prende fuori il libro di scuola, va’ alla pagina del compito, legge il testo, spiega come si deve fare, scrive lei le risposte, chiede al figlio se ha capito, riceve un assenso, scrive sul quaderno la frase: “ I compiti li ha fatti il bambino con la sua mamma” e pensa tra sé: ”Quando sarà più grande poi li farà da solo”;  nel secondo caso il bambino si siede al tavolo, prende dallo zainetto il libro di scuola trascritto in braille ed  il foglio in cui in classe ha scritto in braille i compiti, apre il libro, va alla pagina dei compiti, li legge, mette nella Perkins il foglio di carta e batte a macchina le risposte; la mamma intanto è occupata in un’altra attività e pensa tra sè: “ Sento che ce la farà anche senza di noi”. 

Tra gli estremi ci sono tante soluzioni intermedie, ma certo la prospettiva a lungo termine, che va però imboccata fin da subito, non può essere che quella della conquista della massima autonomia possibile.

 

8. A SCUOLA CON IL BRAILLE?

Se al bambino serve il braille è fondamentale che arrivi alle elementari conoscendolo già a sufficienza, altrimenti rischia di rimanere indietro rispetto al cammino dei compagni. Il leggere e lo scrivere è basilare per muoversi con autonomia.

Nell’ultimo anno della scuola materna abbiamo constatato che si può, e si deve fare già molto, sia per fornire al bambino i prerequisiti spaziali utilizzati nel linguaggio braille, sia per veri e propri esercizi di riconoscimento delle lettere con i puntini, dapprima su grandi tesserine di cartone, poi via via con tesserine più piccole, combinate tra loro per creare le parole.

“Il braille al bimbo è stato inizialmente fatto passare come un gioco; gli si è comunque dovuto dire che gli altri non usano il braille, ma che fanno le stesse cose in un altro modo”; questo può essere reciproco perché anche agli altri può venir detto che il braille è un sistema di scrittura in più.

L’apprendimento per il bambino è comunque più rapido di quello che potremmo pensare; è capitato più di una volta che il bambino fosse più avanti nella lettura di diversi suoi compagni; per la scrittura già i nostri figli non hanno più iniziato dalla tavoletta con il punteruolo come si faceva anni prima, bensì direttamente dalla macchina da scrivere meccanica ( Perkins), rumorosa ma veloce, con la quale, nei primi mesi di scuola, se non per tutto il primo anno, sono riusciti a mantenersi tranquillamente al passo con i compagni. 

Quando poi il bambino è passato ad usare il computer ed al display braille, le sue prestazioni sono aumentate ancora di più.

Abbiamo però scoperto che il braille a scuola presenta, purtroppo, un risvolto negativo di ordine pratico costituito dalla difficoltà di ottenere libri di testo adeguati alle esigenze dei nostri figli.

Fino alle elementari è stato tutto sommato semplice ottenere la stampa in braille dei pochi libri di testo che servivano; dalle medie in poi non è stato più pensabile stampare in braille i testi di ciascuna materia - il volume di carta prodotto diventava ingestibile - e pertanto si è incominciato a ricercare i testi non più in formato cartaceo, ma elettronico.

Inoltre abbiamo constatato che le formule e gli esercizi di matematica non erano immediatamente traducibili in braille e richiedevano un adattamento specifico.

I costi poi sono lievitati enormemente ( migliaia di euro), anche se è stato possibile avvalersi delle convenzioni con le stamperie autorizzate, che lo stato italiano finanzia, e dei fondi per il diritto allo studio.

La conseguenza di tutto questo è che alle medie ed alle superiori quasi nessuno di noi ha avuto i libri a disposizione al completo all’inizio dell’anno e talvolta, neanche alla fine.

Abbiamo dovuto alla fine piegarci a quello che è apparso come un dato di fatto non eliminabile; non sempre è nelle nostre possibilità far andare le cose come dovrebbero.

9. SE IL BAMBINO HA UN RESIDUO VISIVO, DEVE IMPARARE  LO STESSO IL BRAILLE?

Chi ha un figlio ipovedente si trova ad affrontare problemi molto più sottili e complessi di quelli che si incontrano nel caso della cecità.

Sono problemi che toccano tantissimi aspetti dell’apprendimento e tra questi quello specifico della scelta degli ausili.

Una prima scelta avviene tra la lettura a caratteri ingranditi e la lettura braille.

Nel primo caso si può pensare di utilizzare l’ingranditore. Abbiamo visto però che questa macchina va bene per un uso occasionale, ma se il bambino la deve usare tutti i giorni per poter accedere ai testi scolastici, risulta lenta ed ingombrante. Specialmente la lentezza è penalizzante, soprattutto se confrontata con il braille che, una volta appreso, consente velocità di lettura del tutto confrontabili con quelle della classe.

L’aspetto dell’ingombro e della macchinosità d’uso degli ingranditori si aggiunge poi a quello principale della lentezza.

La lentezza della lettura a caratteri ingranditi non dipende poi solamente dal macchinario usato, è insita nel sistema stesso di lettura, che avviene poco alla volta, lettera dopo lettera, con uno sforzo della vista ed un rapido affaticamento.

Un altro confronto può essere fatto tra il braille e la sintesi vocale al computer; la seconda non richiede alcun particolare addestramento e quindi può sembrare a prima vista una buona soluzione per tutti i diversi problemi di vista. Questo può essere parzialmente vero per un adulto che perde la vista, ma sa già leggere e scrivere, non certo per un bambino che deve ancora imparare: la lettura senza la scrittura è assurda: non si impara la struttura della parola, l’ortografia, né della lingua italiana né tantomeno di una qualunque lingua straniera, la matematica diventa inaffrontabile e si diventa totalmente dipendenti da uno strumento tecnico senza potersene separare. 

Non ci dovrebbero perciò essere difficoltà a ché il bambino ipovedente imparasse il braille per leggere e scrivere nel contesto specifico scolastico, pur continuando ad utilizzare il residuo visivo nella vita partica, per riconoscere i colori, leggere scritte di dimensioni adeguate e così via.

A volte siamo proprio noi genitori che consideriamo, del braille, non tanto le caratteristiche di linguaggio efficace, in grado di consentire a nostro figlio di compiere un percorso scolastico appropriato, ma cogliamo piuttosto il suo connotato negativo di linguaggio per “ciechi” e per questo tentenniamo e prefriamo aspettare.

L’esperienza ci ha insegnato che, nel dubbio, è meglio e più prudente fare subito la scelta, per non trovarsi poi a rincorrere il tempo perduto: è meglio un braille in più che un braille in meno.

Varie volte poi abbiamo dovuto prendere atto, purtroppo, che con gli anni la vista dei nostri figli è peggiorata e che il recupero del ritardo nel braille è costato uno sforzo notevole, proprio perché non era stato iniziato quando erano piccoli.

10. IL BRAILLE, IL BASTONE  BIANCO, NON  SONO MARCHI DI DIVERSITA’?

Indubbiamente l’uso di ausili visibili, come succede ad esempio ancor di più per le carrozzine, rende evidente a tutti che la persona porta un deficit fisico.

Come genitori abbiamo vissuto il momento in cui il bambino, per crescere nella sua autonomia, ha incominciato ad usare questi ausili e si è generato in noi, in misura più o meno marcata, un certo disagio, pensando che il figlio si sarebbe mostrato come un diverso e che gli altri così lo avrebbero giudicato; abbiamo iniziato a soffrire già noi al posto suo, anticipando quello che sarebbe stato anche - così pensavamo - il suo dolore.

In realtà abbiamo visto che i figli se la sono cavata molto meglio di quanto avevamo creduto, specialmente se le cose sono state fatte al momento giusto; abbiamo visto, nell’espressione del viso dei nostri bambini, la fierezza di potersi muovere da soli, la padronanza di sé grazie ad uno strumento che maneggiano con crescente abilità, il trionfo per non dover dare più la mano ad un grande, proprio come gli altri bambini.

I bambini piccoli, curiosi e intraprendenti, sono più attratti da questi ausili, li maneggiano con più naturalezza e vi si adattano senza problemi; la stessa operazione, fatta in una fase preadolescenziale, ha probabilmente una implicazione psicologica più complessa.

Ci è sembrato che, nei nostri figli, la capacità di adattamento di cui dispongono, la percezione del reale beneficio pratico che gli ausili assicurano, l’atteggiamento “sportivo” - quasi di sfida personale da vincere - con cui affrontano l’addestramento, prevalgano sul timore di venir giudicati dagli altri.

E’ molto importante che su questo aspetto non siamo noi genitori proprio quelli che fanno i danni: se trasmettiamo ai figli l’idea che per il timore di esporsi al giudizio altrui sia meglio rinunciare agli ausili, creiamo in loro ancora più difficoltà senza saper peraltro fornire loro una alternativa che non sia il continuare a dipendere dagli altri o, peggio ancora, vivere appartati.

A livello di cultura civile si potrebbe fare certo di più per diffondere la sensibilità per la quale un bambino che si sposta con un bastone bianco, prima che essere considerato un piccolo cieco, sia visto semplicemente come un bambino.

Lo stesso vale per la scrittura braille: se nella società il braille fosse conosciuto di più, sarebbe uno strumento più naturale e perderebbe la caratteristica di anomalia per chi lo usa; il diffondersi delle scritte in braille sulle scatoline dei medicinali, negli ascensori ed in varie altre situazioni favorisce questo processo ed anche noi, nel nostro contesto possiamo fare qualcosa.

11. COME SARA’ ACCOLTO DAI COMPAGNI?

 “La presenza dei nostri figli sviluppa negli altri la conoscenza dei problemi e una attitudine all’aiuto.”

Intanto la conoscenza: “Noi stessi vedevamo prima un cieco per strada come una macchietta; dopo aver avuto un figlio con gli stessi problemi abbiamo decisamente cambiato idea. Solo il contatto diretto con le persone te le avvicina e te le fa comprendere per quello che sono realmente”.

L’aiuto e l’integrazione sono potenzialmente più facili nella scuola primaria; in questa fascia scolastica, per esempio, gli aspetti ludici hanno ancora molta presa sui bambini e possono essere un veicolo di integrazione: il bastone, i grossi occhiali possono essere elementi di gioco; la stessa disabilità, invece che nascosta, può essere “esibita” come elemento eroico: “Il bambino cieco ha tirato il rigore e ha fatto gol”.

C’è una discreta immediatezza dei bambini a considerare il disabile per quello che è, nel bene e nel male, senza finzioni. 

In seguito le cose diventano più complesse e sottostanno al pedaggio inevitabile proprio delle età difficili, in cui ogni ragazzino corre per sé stesso e non ha tempo per curarsi di chi resta indietro.

E’ molto facile che alla scuola media ed alle superiori nostro figlio resti più isolato e non riesca a entrare nei circuiti extra-scolastici dei coetanei, rimanendo sempre un po’ tagliato fuori da modelli di vita che non contemplano la presenza di ragazzi meno autonomi. 

Questo però è un dato fisiologico, che vale per tanti altri ragazzi di quell’età; resta importantissimo invece che nella scuola primaria la socializzazione sia fatta bene, perché gli effetti di una esperienza educativa positiva, rassicurante e corroborante rimangono nel tempo, sia per nostro figlio che per i compagni.

Se invece la socializzazione non è guidata bene, se si riduce a formalismi, se non si svincola dai paragoni e dai giudizi, lascerà nei bambini una sensazione di insuccesso e rimarcherà la convinzione che la società è divisa tra fortunati e sfortunati e che ognuno va per la sua strada.

Per ridurre questo rischio anche noi genitori possiamo fare qualcosa, facendo capire alle insegnanti che giudichiamo molto importanti i risultati dell’inserimento ( dice chiaramente uno dei nostri figli: “Mi piace la ricreazione”) , come se non più di quelli scolastici e che chiediamo e apprezziamo particolarmente gli sforzi in questa direzione.

I nostri figli sono portati, proprio per il dover fare a meno della stimolazione visiva, ad interiorizzare gli avvenimenti, ad esercitare una certa capacità di attesa e di tolleranza, a non  disperdersi troppo sugli aspetti secondari e superficiali delle cose ma a concentrarsi sul compito, tutti atteggiamenti che possono avere una ricaduta positiva sulla classe in termini di moderazione dagli eccessi e finanche di supporto a qualche compagno.

Anche i compagni, peraltro, possono essere di appoggio:  “ Beh, tu non ci vedi, ma di sicuro avrai delle altre cose” ed anche di difesa verso chi, dall’esterno, non conosce il bambino e lo può deridere: “ Il nostro compagno non ha niente, è solo che non ci vede”; “ Se provi a fargli lo sgambetto fuori dalla scuola, vedi come finisci”.

Quindi i nostri figli sono effettivamente una opportunità di crescita umana per la classe, ma attraverso un processo che non è automatico, bensì deve essere guidato con cognizione da parte degli insegnanti e che non è detto che si risolva necessariamente in maniera tutta positiva.

Quello che abbiamo riscontrato guardando a ritroso le vicende scolastiche dei figli più grandi è che, all’interno del gruppo classe, ci si può attendere la nascita di qualche rapporto umanamente sincero e non puramente formale, ma ci si deve aspettare anche che la maggior parte delle relazioni restino ad un livello di indifferenza, con qualche punta di reciproca intolleranza.

Abbiamo constatato che in questa situazione i nostri figli non sono soli, in quanto altri adolescenti si trovano a vivere la medesima condizione; non pensiamo di consolarci con il detto “mal comune mezzo gaudio”, quanto piuttosto non vogliamo scambiare ciò che in qualche misura è fisiologico, pur se spiacevole, con qualcosa che è invece patologico e può pregiudicare la maturazione successiva dei nostri ragazzi.

Il rapporto con i compagni costituisce in ogni modo, al di là dell’esito che avrà, un evento cruciale nella crescita dei nostri figli.

L’ambiente scolastico è davvero, per loro, una scuola di vita, nella quale acquisiscono le strategie cognitive necessarie per  inquadrare le persone con i loro diversi caratteri e i loro diversi modi di fare, imparano a giudicare di chi si possono o non possono fidarsi, quando devono o non devono esporsi, con chi si trovano bene e con chi no, chi è sincero e chi non lo è e così via.

Noi arriviamo a compiere queste valutazioni utilizzando in larga misura le informazioni visive, i nostri figli non possono fare altrettanto, richiedono un addestramento più complesso e raffinato, per il quale l’ambiente dei compagni di scuola è la prima palestra.

IN GENERALE

12. QUAL’E’ LA MANIERA GIUSTA PER OTTENERE IL RISPETTO DEI DIRITTI DI NOSTRO FIGLIO?

Le tutele per le persone con disabilità in Italia sono tante, ma sono anche poco conosciute, a partire dai diretti interessati.

A volte sono tutele onerose per le amministrazioni locali e quindi il non conoscerle o il non diffonderne la conoscenza può nascondere un risvolto di ordine pratico.

Come genitori dobbiamo trovare la maniera di informarci direttamente o di rivolgerci a qualcuno preparato, cosa da consigliare perché le normative sono troppe per poterle padroneggiare tutte.

“Io mi sono letto il piano formativo della scuola e quando qualcosa non ha funzionato sono andata da chi poteva decidere. E’ importante capire chi ha il potere di prendere le decisioni, altrimenti si fanno solo degli sfoghi e delle lamentele infruttuose”.

Quando ci sono dei diritti negati o quando c’è scorrettezza o quando qualcuno fa finta di non capire, non ci possiamo accontentare della protesta, dobbiamo essere decisi, in maniera pacata e consapevole, ma decisi ed andare fino in fondo, fino a chi può correggere le cose sbagliate, perché se la ragione è dalla nostra, se mettiamo in chiaro di chi sono le responsabilità e facciamo capire che, per il bene di nostro figlio, non lasceremo perdere, alla fine chi deve fare le cose le fa’.

Insistere da’ sempre dei risultati, ci vuole pazienza, convinzione nelle proprie ragioni e insistere.

A volte, nel mondo della scuola, abbiamo paura che il figlio subisca delle ritorsioni.

Per questo dobbiamo interpretare bene il nostro ruolo di “tutori dei diritti di nostro figlio” e mantenere con gli insegnati una posizione equilibrata,  evitando sia i rapporti troppo amichevoli, che ci tolgono capacità di critica, sia i rapporti pregiudizialmente conflittuali, che espongono il figlio a ritorsioni.

Non dobbiamo stare troppo addosso alla scuola, ma nemmeno defilarci; se possiamo però fare una graduatoria tra questi due pericoli, allora il secondo dei due è il più serio; è capitato che alla fine delle elementari una famiglia si sentisse dire per la prima volta, quando ormai serviva a poco, che nella scuola c’erano sempre state le cuffie per ascoltare la sintesi vocale al computer.

Non dobbiamo poi dare l’idea di essere quelli che pretendono le cose come una compensazione morale per la ‘disgrazia’ che abbiamo avuto; chiediamo solo quello che la legge e le regole stabiliscono e sempre con un concreto senso pratico, poiché le cosiddette ‘battaglie di principio’, portate avanti a qualunque costo, sono molto rischiose e di sicuro scavalcano il figlio, che si sente quasi sempre a disagio e finisce solo per subirle.

E poi non siamo certo gli unici ad avere dei diritti; “Quando il bimbo era piccolo passavo davanti nelle code; adesso che è cresciuto altri mi passano davanti e mi sembra giusto così”.

13. POSSIAMO DELEGARE?

L’esperienza su questo aspetto è abbastanza concorde: per il bene di nostro figlio è necessario che noi genitori affrontiamo in prima persona tutti i soggetti che si occupano della sua istruzione e più in generale della sua crescita.

Non possiamo illuderci di delegare ad altri la gestione della vita del figlio; bisogna entrare pian piano nei problemi per capirli e per poter diventare degli “esperti per esperienza fatta sul campo”, in grado di dialogare con gli “esperti per professione”.

Se invece non conosciamo le cose, siamo costretti ad affidarci agli altri, prendendo per buono tutto quello che ci passano, per poi scoprire casomai, che non erano preparati come sembrava.

A scuola questo può capitare con una certa frequenza, con il risultato che gli operatori  impreparati non sanno fare altro che badare nostro figlio come fosse un pacco da custodire finché non torniamo a ritirarlo.

Più in generale, non possiamo aspettarci che qualcuno venga spontaneamente ad illustrarci i diritti di cui gode nostro figlio e a farci delle proposte. “Per trovare un’attività sportiva abbiamo dovuto guardare su internet, poi con il passa-parola si è creata una catena di conoscenze:  allenatore – altro bambino - altri genitori - Istituto Cavazza, grazie alla quale abbiamo trovato la soluzione; sono sempre cose che devi gestire direttamente, nessuno ti viene a dare le risposte a casa.”

Inoltre è inevitabile che i professionisti che operano con i nostri figli possano avere chiaro soprattutto ciò che compete loro in senso stretto: gli oculisti si occupano degli aspetti della visione, gli insegnanti delle attività didattiche, forse il neuropsichiatra infantile ha le competenze per riannodare tutte le fila, ma non ne ha il tempo; alla fine la sintesi la dobbiamo fare noi genitori, comunque.

Il gruppo di genitori può essere davvero un aiuto alla singola famiglia in quanto è un gruppo in cui gli interessi sono comuni e dove si possono scambiare informazioni e valutazioni basate sull’esperienza vissuta in prima persona.

Un caso in cui il nostro gruppo di genitori ha consentito di portare avanti con più forza e con reciproco aiuto una richiesta collettiva che sarebbe stata troppo impegnativa per le famiglia prese singolarmente è stato quello della protesta per la insufficiente diffusione dei libri di testo digitali.

Ci siamo riuniti e consultati tra noi, giungendo a promuovere una campagna per l’invio di e-mail da tutta Italia al ministro della pubblica istruzione e intervenendo con un nostro portavoce in un convegno sull’argomento; abbiamo sollecitato i responsabili che seguono la stampa braille per tutta Italia e siamo andati a conoscere chi aveva sviluppato un programma specifico per la matematica.

Solo perché eravamo un gruppo, per quanto ridotto, abbiamo potuto portare avanti quelle iniziative; singolarmente saremmo riusciti al massimo ad ottenere qualcosa di più per nostro figlio, senza lasciare un segno che facesse crescere la cultura e l’attenzione per il problema e che potesse dare quindi un ritorno positivo nel tempo a venire.

I nostri figli poi ci hanno osservato e siamo convinti che si siano fatti un’idea di come essi stessi potranno affrontare un domani i loro futuri problemi.


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