“Politically Correct”
Ossia la non Discriminazione Virtuale

Non basta cambiar nome alle cose per cambiarne la realtà

Rodolfo Cattani

Vi sono questioni su cui forse non è opportuno ironizzare, ma si dà il caso che talvolta la voglia di farlo sia davvero irresistibile. Nomen omen recitava un detto latino, per indicare che i nomi, comuni o proprii, spesso sembrano raffigurare o presagire una situazione, una condizione, un destino di cui sono in un certo senso latori.
Il nome di un’entità è certamente convenzionale, ma non casuale e talvolta massimamente appropriato.
Nell’odierna società in cui predomina l’immagine e gran parte dell’informazione è filtrata dai media, i nomi hanno assunto un’importanza ancor maggiore e una specie di esistenza virtuale. Ciò può forse spiegare l’insorgere dell’esigenza di esprimersi in modo politicamente corretto, utilizzando cioè dei termini non stigmatizzanti.
Il linguaggio politicamente corretto risale agli anni settanta del secolo scorso, quando negli Stati Uniti e poi in Europa si diffuse il movimento per i diritti umani, che portò con sé tutta una serie di istanze con una forte impronta democratica e antidiscriminatoria.
Si diffuse così nella società l’esigenza di depurare certa terminologia dalla connotazione negativa e discriminatoria, sostituendo le espressioni percepite come offensive con altre più asettiche o addirittura accattivanti.
Ecco così scomparire i negri, le puttane, i pederasti, i drogati, i barboni, gli accattoni e così via e subentrare quelli di colore, le lucciole, i gay, i tossicodipendenti, i senza fissa dimora. I vecchi nomi sono oggi utilizzati con insultante disprezzo da gente di poca cultura e senza scrupoli.
Ma non basta. Nel vortice della riforma linguistica sono state trascinate anche le donne di servizio riclassificate colf; i gloriosi spazzini dalle sonore trombe, declassati a netturbini, o meglio ad operatori ecologici; gli sguatteri, i manovali, gli scaricatori di porto, tutta gente di cui si sono perse linguisticamente le tracce.
Un settore che ha particolarmente beneficiato di questa rivoluzione linguistica è stato quello delle persone affette da minorazioni fisiche, sensoriali o psichiche. Prima della rivoluzione c’erano i ciechi (diretti discendenti degli orbi), i sordi, gli storpi o sciancati, i deficienti o scemi o ritardati mentali, insomma un’accozzaglia di disgraziati da far pietà.
La nuova sensibilità inorridiva dinnanzi a tale ludibrio e così furono ribattezzati non vedenti, non udenti o audiolesi, non deambulanti e minorati psichici.
Alla ricerca di un termine che accomunasse tutte queste diverse tipologie di deficit nacque un termine che doveva restituire a tutte queste persone uno status sociale comune e una dignità personale.
Il concetto di handicap fu forse preso a prestito più o meno consapevolmente dall’ippica, dove accade che alcuni cavalli, troppo forti, vengano penalizzati alla partenza perché non risultino oggettivamente favoriti nella corsa.
Le persone svantaggiate erano quindi ancora considerate in relazione alla loro penalizzazione.
Secondo la classificazione dell’organizzazione Mondiale della Sanità, recentemente abbandonata, le persone handicappate erano affette da un deficit (minorazione), che causava una limitazione funzionale (disabilità), da cui discendeva l’incapacità di rapportarsi con l’ambiente di vita (handicap).
Chiedo venia per la semplificazione, per ragioni di brevità, di una materia così delicata e sensibile, ma mi preme evidenziare che l’accento era sempre posto sulla persona cosiddetta handicappata e non sull’ambiente in cui essa vive.
Anche il termine (handicappato) fu messo da parte, per adottare quello apparentemente più corretto di disabile, nel senso di diversamente abile. Il problema è che, appena questi termini cominciavano a circolare, assumevano subito una connotazione stigmatizzante.
Ma perché?
Il fatto è che all’evoluzione linguistica non è corrisposta un’analoga evoluzione culturale. Infatti, se è vero che negli ultimi anni l’accettazione, la tolleranza nei confronti delle persone disabili è maggiore, la loro reale inclusione sociale è ancora lontana. Permangono i pregiudizi, le remore, le paure ataviche, il rifiuto istintivo della diversità, atteggiamenti ben più difficili da correggere di una parola nel linguaggio comune.
Molte persone disabili ritengono che, invece di esercitarsi sulle definizioni, che rischiano di essere generiche e fuorvianti, si debba guardare alla sostanza, ponendo mano ai problemi reali che le persone devono affrontare quotidianamente.
Ciò significa soprattutto riconoscere che se si vogliono veramente garantire alle persone disabili la partecipazione e le pari opportunità bisogna agire sull’ambiente di vita, per eliminare gli atteggiamenti e le barriere che ancor oggi vi si frappongono.
Il cosiddetto Modello Sociale della disabilità afferma che la stessa non è soltanto un attributo o una caratteristica di una persona, ma piuttosto un complesso costrutto sociale e ambientale, largamente influenzato dagli atteggiamenti e dai comportamenti sociali e condizionato dalle limitazioni create dall’ambiente umano in cui la persona vive.
Conseguentemente, ogni processo rivolto a migliorare la condizione e a favorire l’integrazione delle persone disabili richiederebbe un’azione sociale e alla società in senso lato competerebbe la responsabilità collettiva di attuare i cambiamenti comportamentali e ambientali necessari a consentire la loro piena partecipazione in tutti i momenti della vita.
Nel 2001 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato una nuova Classificazione Internazionale Delle Funzioni, Della Disabilità e Della Salute che fa proprio il modello sociale della disabilità sopra illustrato. In effetti, la nuova versione della classificazione si differenzia sensibilmente da quella precedente, la quale si riferiva sostanzialmente agli aspetti medici e individuali della condizione di disabilità. Secondo il nuovo approccio, la funzionalità di una persona affetta da un deficit in un particolare settore è un processo interattivo tra le sue condizioni di salute, le sue attività e i fattori concomitanti.
La classificazione dell’I.C.F. non riguarda quindi solo le persone disabili, ma può applicarsi in misura variabile a tutte le persone. Tecnicamente il termine persona con disabilità è considerato ormai obsoleto ed è stato sostituito dalla locuzione persona con limitazioni di attività.
Si tratta di una persona di qualsiasi età che non sia in grado di compiere in modo autonomo o senza aiuto compiti o attività umane fondamentali a causa di una condizione sanitaria o di una minorazione fisica / mentale / cognitiva / psicologica di natura permanente o temporanea.
Questa amplissima definizione può applicarsi a numerose tipologie di persone, molte delle quali non sarebbero state classificate disabili nel passato. In tal caso le persone realmente disabili rischiano di scomparire, non essendovi più criteri oggettivi per riconoscerle.